Roma, così si perdono valori e passione

Dan e Ryan Friedkin (foto Mancini)
di Alessandro Catapano
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Lunedì 7 Febbraio 2022, 00:57 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 03:32

Piccoli, ma non fessi. E poi, mica tanto piccoli. Per carità, Roma non è mai stata la capitale calcistica del Paese. Ci ha provato, a più riprese, con Viola negli anni Ottanta, con Cragnotti e Sensi nel ventennio successivo. Quando si è imposta, lo ha fatto con sforzi straordinari - successivamente pagati a caro prezzo - perché ha dovuto superare le resistenze delle avversarie e del Sistema. «Siete un popolo di piagnoni», dicevano dal Palazzo. E giù a ridere. Poi è arrivata Calciopoli e qualcosa è cambiato. Non tutto, non proprio. Ci sono delle cose dure a morire. L’accoglienza che si riserva a chi chiede di entrare nel salotto buono, ad esempio: un simpatico mattacchione, se è innocuo; un intollerabile insolente, se mostra di avere qualche ambizione fuori luogo. Da mettere alla porta, in breve tempo e con ogni mezzo. Gli arbitraggi riservati alla Roma dall’avvento di Mourinho sono una conseguenza di tutto questo?

Non ci azzardiamo nemmeno a pensarlo, è solo sfortuna se ripetutamente, nel dubbio, gli arbitri abbiano interpretato regolamento e protocolli premiando l’avversaria di turno dei giallorossi. La stessa sfortuna in cui, solitamente, incappano le piccole squadre quando affrontano le grandi. Mourinho lo ha capito subito (del resto, come gli ha ricordato perfidamente Rosella Sensi, dieci anni fa lui le cose le viveva in una posizione meno scomoda). I Friedkin, ancora no. Ed è incredibile, quasi paradossale, che proprio loro, che in questa avventura - finora onestamente un tantino scombinata -, hanno investito (o buttato?) già mezzo miliardo di euro, non avvertano l’esigenza di intervenire. Eppure, c’è un pubblico, il pubblico romanista - per inciso il primo in Italia per percentuale di riempimento dello stadio - che si sente preso in giro. Un talento - il Nicolò Zaniolo patrimonio del calcio italiano, non solo romano - che non si sente protetto, bersagliato dagli avversari eppure continuamente sanzionato dagli arbitri.

Un allenatore, José Mourinho - il più famoso del mondo - senza il quale la Serie A tornerebbe nelle brevi dei media internazionali -, lasciato solo a invocare rispetto, per sé, per la squadra che allena e per la piazza che rappresenta. 

La Roma continua a impoverirsi, per insufficienze proprie e cattiverie altrui. La squadra stenta, l’allenatore dà l’impressione di andare in confusione, gli arbitri fanno il resto. Mentre la concorrenza - leggi la Juve rinforzata da Vlahovic e Zakaria - vola. Questa perdita di valore non potrà che sfociare, prima o poi, in perdita di passione. Sabato, erano circa in trentamila all’Olimpico, quattromila in meno della capienza massima consentita: solo un caso o il primo piccolo segnale di erosione? Guardare questo precipizio senza dire una parola non è una scelta nobile, né un atteggiamento naif, ma un grave errore. Dai danni potenzialmente incalcolabili. Per invertire la rotta, bisognerebbe capire, una volta per tutte, che gestire una società di calcio in Italia non è come vendere macchine giapponesi in Texas o fare un film a Hollywood. E’ maledettamente più complicato.

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