Ecco il Giro, cento anni di emozioni su due ruote

Nibali
di Malcom Pagani
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Giovedì 4 Maggio 2017, 10:41 - Ultimo aggiornamento: 10:42
Il tempo se ne andava in controluce e nei bar di frontiera, seduti a un tavolino, i provinciali sentivano che almeno per un giorno, l'Italia tornava a essere una sola grande piazza.
 
Piazza d'armi nel lavorìo incessante dei gregari che nelle tappe «divoratrici di uomini» preparavano il tappeto rosso ai campioni pronti a vestirsi di rosa, piazza d'amore nelle borracce e nel companatico passato di mano in mano ai ciclisti ansimanti, piazza letteraria fin dall'epoca in cui Buzzati fotografò il deserto interiore dei corridori con descrizioni così pre-televisive da permettere visioni che tenendo legate tragedia greca e cronaca, superavano in nitidezza l'hd: «Quando oggi, su per le terribili strade dell'Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell'anima e del corpo e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico allora rinacque in noi, dopo trent'anni, un sentimento mai dimenticato.

LE TELECAMERE
Trent'anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille». C'era un'epica che univa vita e morte anche tra le pieghe del Giro e avremmo ricordato a lungo, un martire dell'imperscrutabile chiamato Orfeo Ponsin, anima sfortunata delle seimila scarse attribuite all'enclave patavina in cui era nato, finito disgraziatamente contro un albero nella Siena- Roma a due passi dal Lago di Martignano e celebrato poi, con tutti gli accenti al giusto posto e la voce rotta, dalla radio ascoltata in case in cui della tv non c'era ancora traccia. Arrivò poco dopo, il circo delle telecamere, e subito imparò a trasmettere tra ruote e cerchioni quel che andava al di là di pedali, raggi e ruote sgonfie. Gli intellettuali seguiti a Pratolini, Gatto e Campanile e ai reportage di Anna Maria Ortese su L'Europeo, nel bianco e nero sgranato dell'epoca, giunsero con le parole alate a interrogare tutti quelli che le ali le avevano ai piedi. Vennero Pier Paolo Pasolini in conversazione con un commosso Vito Taccone, Giovanni Luigi Brera detto soltanto Gianni in ammirata estasi di Merckx, quasi proteso anche fisicamente verso di lui sotto l'occhio della cinepresa: «Eddie non ha dormito, poi è caduto ed è stato costretto a cambiare una ruota, infine è arrivato comunque davanti a tutti gli altri di cinquanta metri. Ecco perché dico che è un eroe moderno, ecco perché sostengo che sia un po' matto ed ecco perché mi sono spinto a chiedere l'arresto immediato per chi da organizzatore obbliga gli atleti a questi eccessi». Tutti in fila, come neanche alla partenza, nel Processo alla Tappa officiato dalla sapienza di Sergio Zavoli, planarono attori come Walter Chiari e più tardi, tra un'imitazione di Bartali, con il suo naso triste come una salita incarnato dal volto di Alighiero Noschese: «E tutto sbagliato, è tutto da rifare, il giro è ormai in mano alla pubblicità» e un altro disintossicante naturale di estrazione lombarda, Ugo Tognazzi, arrivò anche il cinema.

GLI ATTORI
Il grande cremonese, tra una canzoncina d'antan in sottofondo «guarda alla partenza come son carini/fan la riverenza e poi si fan gli inchini/ e la carovana, tutta in fila indiana/ per la strada si allontana» e la campagna vista da un paracarro, sintetizzava involontariamente, in un Girosprint del 67, la magìa di un insieme le cui ragioni sono rimaste intatte fino a oggi: «Bisogna dire grazie al Giro D'Italia perché questa gente delle mie terre, quando la guardo da vicino, mi sembra simile a me in tutto e per tutto. Sarà soltanto campanilismo, ma anche se fosse, non me ne vergognerei. Sono rimasto un provinciale e contento di esserlo».