Sanremo, Al Bano: «Così il canto mi ha aiutato a superare momenti di pura disperazione»

L'artista: «Il canto è fondamentale per la vita, culturalmente e psicologicamente»

Al Bano
di Alessandra Lupo
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Giovedì 8 Febbraio 2024, 07:25 - Ultimo aggiornamento: 11:18

Se oggi la scienza è in grado di spiegare cosa succede al nostro cervello quando cantiamo, individuando le diverse aree della corteccia cerebrale che accendendosi aumentano la secrezione di endorfina e ossitocina, rendendoci empatici e rilassati, dobbiamo invece compiere uno sforzo di immaginazione per comprendere come questa antica attitudine dell’essere umano si sia sviluppata e trasmessa fin dalle origini.

Ossia sin da quando l’uomo è stato in grado di modulare le sue emissioni vocali utilizzandole anche per esprimere emozioni. D’altronde il canto accompagna la nostra storia personale sin da bambini, con la ninna nanna. Si canta per amore, ma si canta anche per dolore, si pensi alle antiche nenie funebri. Per fede, dalle incredibili architetture sonore dei cori sacri ai gospel. E si canta per sconfiggere la fatica, come nei canti di lavoro. Ma il canto è anche una dote. E c’è chi più di altri dalla natura ha ricevuto questo dono naturale. 
Al Bano, il canto ha indirizzato la sua intera esistenza. Perché è così importante?
«Il canto è fondamentale per la vita. Lo è culturalmente ma lo è soprattutto psicologicamente, mi chiedo spesso chi sia stato il primo uomo a cantare e da cosa è stato spinto. E mi sono spesso domandato come sia avvenuto che quell’insieme di tonalità bene amalgamate che chiamiamo coro si siano sviluppate, praticamente in contemporanea, presso civiltà così lontane e differenti sul globo terrestre».
Il canto è di fatto considerato terapeutico. Per il corpo ma anzitutto per l’anima. Lei condivide?
«Certo, il canto mi ha aiutato a superare momenti di pura disperazione. Mi ha rimesso in gioco quando credevo difficile rialzarmi e so che questa “medicina”, attraverso le varie epoche e tradizioni, si è evoluta diventando una delle più belle ed efficaci che abbiamo a disposizione. Cantare mi ha salvato tantissime volte dalla disperazione, dalla rabbia. Quando una persona è triste si mette a cantare e dopo un quarto d’ora sta già meglio, la tristezza è stata allontanata».
Nella sua vita ha cantato spesso per rabbia o per tristezza?
«Io mi ricordo che mio padre mi costringeva a lavorare la terra, cosa che odiavo. Per lui era importante che in famiglia si condividesse la cultura del lavoro. Così quando mi stancavo di lavorare iniziavo a cantare e lì non avevo più limiti né orari e quando il lavoro finiva potevo dedicarmi interamente alla musica, abbandonarmi senza sentire fatica alla passione per questa passione, se mi passa il gioco di parole».
La sua terra, la Puglia, ha mantenuto un filo diretto con il canto arcaico. Gli stornelli della pizzica nascono anche e soprattutto per alleviare la fatica nei campi e, oltre all’amore, affrontano vita quotidiana e lavoro. D’altronde il “canto alla stisa”, così caratteristico, nasceva dall’esigenza di diffondersi per una lunga distanza.
«Sì, un canto povero, senza strumenti e che bastava a se stesso. Anche perché nei campi non c’era altro. I più giovani non lo sanno, ma quando si faceva la vendemmia da noi in Puglia accadeva né più e né meno quello che succedeva con le work song con cui gli schiavi neri accompagnavano il lavoro nelle piantagioni di cotone del Sud degli Stati Uniti. Ho vissuto quelle atmosfere uniche e irripetibili, a Cellino San Marco, il mio paese, anche nel periodo in cui si mondavano gli ulivi e interi gruppi di persone intonavano canti meravigliosi. Ora nelle campagne lavorano le macchine agricole e lì la musica muore».
La sua voce e il suo canto sono un patrimonio universalmente riconosciuto. Ha avuto innumerevoli riconoscimenti e fan anche tra i capi di Stato. Ma qual è stato il complimento che le è rimasto più impresso?
«Nel 1968 Mario Del Monaco, tenore tra i più rappresentativi degli anni ‘50 e ‘60, mi disse che ero stato strappato alla lirica. Detto da lui mi colpì moltissimo. E lo stesso fece Montserrat Caballé, la soprano spagnola con cui ho avuto l’onore di collaborare in più occasioni, che mi ha spesso chiesto perché non avessi studiato lirica».
Già, perché non lo ha fatto?
«Perché in quel momento desideravo fare altro. Seguire la mia strada. Sbagliato o giusto che fosse io sono andato dove mi portava il cuore. E, ovviamente, la voce».
Sanremo è il luogo del canto per antonomasia. Se cantare fa star bene, non andarci fa soffrire?
«Mah, Sanremo è l’Oscar della musica leggera italiana e come tale è bene che resista: è la culla della musica popolare e resta il festival più copiato nel mondo».
Ha preso con fair play il fatto di essere stato escluso?
«Non mi hanno escluso, semplicemente non sono stati mantenuti i patti stabiliti lo scorso anno: sarei stato l’ospite d’onore nel 2023 e quest’anno in gara».
Perché è così importante gareggiare per chi come lei ha già tanti onori?
«Ci sono tornato per ben quattro volte come ospite d’onore ma misurarsi è un’altra cosa: io sono nato con l’aureola sanremese e sia per me sia per gli altri del mio mestiere il festival era lo spettacolo di 360 giorni l’anno. Un’occasione unica. E tale resta anche se per quest’anno farò lo spettatore».
 

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