Simona, parla lo psichiatra: «Mi raccontò di essere stata violentata»

Simona Riso
di Raffaella Troili
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Mercoledì 13 Novembre 2013, 09:43 - Ultimo aggiornamento: 14 Novembre, 10:11

Chi viene da noi o stato violentato o stato ignorato, che un’altra forma di violenza. I nostri pazienti spesso sono anche le famiglie». Nel reparto di psichiatria del San Camillo, Simona Riso ha lasciato quei suoi «sorrisi eccessivi rispetto al contesto», le confidenze al tramonto dopo un mese di silenzio, il dolore che alla fine erano riusciti a tirarle fuori. «Sono stata violentata, non una volta ma spesso, quando ero più piccola, da un parente». Uno degli psichiatri che l’aveva in cura ricorda tutti i passaggi, da quando arrivò in pronto soccorso dalla clinica Villa Armonia perché si era tagliata i polsi a quando ci riprovò, altre ferite sugli stessi tagli ma più superficiali. «Per testarci, sfidarci, vedere se poteva fidarsi di noi. Non l’abbiamo rimproverata, le abbiamo solo chiesto: come mai?»

La giovane che la mattina del 30 ottobre è morta al San Giovanni dopo esser precipitata dal terrazzo di una palazzina in via Urbisaglia, si era tenuta dentro quell’antico segreto, il trauma che l’aveva portata a 19 anni ad allontanarsi dalla Calabria e da un parente molesto che si era approfittato di lei, forse anche da un ambiente in cui non trovava comprensione. «Come accade in questi casi aveva paura di non essere creduta. Ma voleva liberarsi di un peso e dopo un mese di silenzio in cui ci studiò, finalmente si aprì: prima titubante, poi convinta che ce l’avrebbe fatta».

I medici la convinsero a confidare il suo trauma alla famiglia, convocarono la mamma, un fratello, lei era pronta, «pensava di non avere voce e spazio mentre ora con noi a fianco si sentiva più forte. La mamma rimase in silenzio, non fece commenti, forse parlarono in privato. Trovammo sponda solo nella sorella Nunzia, riallacciarono il rapporto, le mandammo insieme in vacanza con l’impegno che Simona rientrasse da noi al ritorno per finire il nostro lavoro. Ma volle andare a Milano con la sorella, eravamo un po’ preoccupati ma le trovammo un terapeuta che la potesse seguire. Sappiamo che l’ha fatto».

INCONTRI SBAGLIATI «Ma in quei tre mesi di convivenza si erano creati legami forti tra la ragazza, gli operatori, gli infermieri. Ero molto affezionato a Simona, in questi giorni parliamo spesso di lei, ci aveva mandato una cartolina, eravamo rimasti per un po’ in contatto». La ragazza a 26 anni con loro era riuscita a tirar fuori il rospo, quelle violenze reiterate, subite quando aveva 14-15 anni, in silenzio sentendosi doppiamente colpevole, «nessuno mi crede, sarà colpa mia?». Tra i 19 e i 26 anni aveva provato a star meglio, la nuova vita a Roma l’aveva stordita ma altre violenze erano accadute. «Si dava anche la colpa di incontrare uomini che la picchiavano, non è escluso che fosse lei a testarli, provocare reazioni».

Avvicinandosi a loro con tutta la rabbia che le davano i fantasmi del passato. Non si fidava Simona, come poteva farlo ammette il medico. «Ma era piena di vita e provava anche attraverso sostanze autolesionistiche a stabilizzarsi, a curarsi da sè ma ripiombava nella depressione, sentendosi dannosa, inadeguata». Come forse la mattina del 30 ottobre all’ora classica dei suicidi, quando ha lasciato tutto in ordine e si è chiusa la porta alle spalle. «Cercava di ibernarsi, congelare il passato, vivendo una dimensione apparentemente superficiale, ma nascondeva una sofferenza interna che a noi non è sfuggita. E’ arrivata brutta e silenziosa poi ha iniziato a parlare, ridere, truccarsi. Alla fine aiutava anche a sparecchiare. Era una ragazza molto seduttiva, in termini infantili, sapeva ingraziarsi tutti, arrivare alle persone». I carabinieri all’inizio dell’indagine sono andati ad ascoltare il dottore come pure la sorella. Forse gli unici che la conoscevano davvero. Non c’è stato bisogno di fornire tanti particolari, avevano già sospetti ed elementi. Volevano solo sapere se «l’ipotesi di una sofferenza passata fosse una strada percorribile».

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