La Comunità Emmanuel per il recupero dei tossicodipendenti chiude tra l'indifferenza della città

La Comunità Emmanuel
di Sabrina Vecchi
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Venerdì 6 Ottobre 2023, 00:10

RIETI - «I progetti fatti vengono sempre fatti morire. La Comunità Emmanuel chiude dopo trent’anni e Rieti non se ne accorge. Ma se è così non possiamo pensare che non sia colpa di chi ha lavorato, che sia colpa mia insomma. Per questo Rieti si spopola, i colpevoli ammettono le loro colpe e si mandano in esilio». 

Lo psicoterapeuta Luca Urbano Blasetti non nasconde l’amarezza per la chiusura della struttura che ha diretto a partire dal 2006, dopo essere succeduto a don Paolo Blasetti, oggi parroco della Cattedrale, che quella Comunità la fondò nei primi anni Novanta in un casale di famiglia nella Piana Reatina. 

La storia. «Nacque da due incontri - ricorda il sacerdote - quello con un ragazzo tossicodipendente che mi chiese aiuto e quello con un amico che faceva parte della comunità nella sede centrale a cui mi sono rivolto: le cose di Dio nascono sempre così, è stata una lunga e bellissima avventura». 
A seguire, subentrò il nipote psicologo: «Mi alternai a don Paolo nella direzione, quando le Asl iniziarono a richiedere la presenza di un’équipe professionale, tra cui appunto uno psicologo», dice il dottor Urbano Blasetti. 

Gli inizi. «All’inizio c’erano venti posti letto, ma era già diventata una situazione molto diversa ed avanzata rispetto agli anni Novanta, la tossicodipendenza era cambiata, non era più principalmente da eroina, erano già subentrate cocaina e droghe sintetiche. Un contesto in cui era più difficile lavorare, con il bisogno di una competenza diagnostica più strutturata, anche con la necessità di consulenza psichiatrica e infermieristica». Da allora, la Comunità Emmanuel ha strutturato una grande quantità di iniziative e progetti formativi: «Andavamo nelle scuole, abbiamo fatto unità di strada, formato educatori, attuato tantissimi progetti di prevenzione, messo in campo partenariati con la Asl o con i Servizi sociali del Comune, ci siamo messi in rete in tanti modi.

Tra le altre cose, i progetti in carcere, quelli contro la ludopatia, poi la prevenzione nelle scuole, i convegni e gli incontri di sensibilizzazione, i laboratori». 

Le difficoltà. Una bella storia andata scemando per tanti e diversi motivi: «Difficile sintetizzare, un fattore culturale ed epocale molto complesso che ha ridotto l’invio in comunità, privilegiando invii provenienti dal carcere o con tossicodipendenze correlate ad altri fattori. Tante cose hanno ridotto gli ingressi in comunità, con il Covid che ha dato il colpo finale: i posti letto erano molto ridotti e l’equipe va pagata, dunque è subentrato il problema economico. Per una struttura organizzativa che si basa sul volontariato diventa difficile diventare impresa, noi avevamo un’altra impronta e probabilmente quel tipo di servizio non era più utile alla comunità». 

L'indifferenza. Rieti, nel frattempo, non si è accorta di nulla. «Non voglio demonizzare la città, ripeto che per tanti motivi quel tipo di assistenza non era più funzionale al momento storico, inoltre l’impossibilità di fare un tournover ha messo anche in luce i limiti degli operatori nel loro lavoro in un contesto tanto difficile. Quindici anni così creano una stanchezza e un logorio che altri luoghi non creano: io stesso ero molto stanco, dunque la chiusura è stata causata da tanti fattori», prosegue il dottor Luca Urbano Blasetti. 

«Però, va anche detto che spesso quanto fatto moriva con l’amministrazione successiva, e Rieti non è stata per nulla recettiva, non ha fatto tesoro di quanto fatto, la sensazione è sempre quella di una città opponente ed involutiva. Abbiamo gettato i semi per tante piante ben coltivate ma fatte appassire, peccato».

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