Bobby Solo: «Sono vent’anni che provo a tornare a Sanremo, ma non mi prendono. A 79 anni ancora mi scateno»

Il cantante, 79 anni, festeggia in tour i sessant'anni della hit "Una lacrima sul viso": «I miei colleghi continuano a cantare le loro hit degli Anni ’60. Che noia. Io, invece, mi scateno: spazio dal bluegrass al rock»

Bobby Solo: «Sono vent’anni che provo a tornare a Sanremo, ma non mi prendono. A 79 anni ancora mi scateno»
di Mattia Marzi
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Mercoledì 10 Aprile 2024, 14:18

Il 18 marzo ha spento 79 candeline sulla torta. Il giorno dopo si è “regalato” un ricovero in ospedale: «Stavo entrando in autogrill per mangiarmi un panino, tra una tappa e l’altra del tour, a Soave, in provincia di Verona. Sono inciampato su un sasso: otto punti sulla fronte, tre sul naso e una mini frattura a un dito del piede. Mi hanno fatto anche una tac, temevano che battendo la testa avessi riportato qualche emorragia interna, invece era tutto okay», racconta Bobby Solo. La voce di Una lacrima sul viso - il vero nome è Roberto Satti: «Scelsi come pseudonimo il mio nome di battesimo, ma all’inglese. Alla segretaria della casa discografica dissi: “Bobby, solo Bobby”. Ma lei fraintese e mi segnò come Bobby Solo» - festeggia stasera nella sua Roma, sul palco del Teatro Olimpico, i sessant’anni di carriera. 

Claudio Baglioni ha annunciato il ritiro, Umberto Tozzi pure. Iva Zanicchi ha detto che smetterà di lavorare tra un anno. Lei dove la trova tutta questa forza?
«Nella musica che suono.

I miei colleghi continuano a cantare le loro hit degli Anni ’60. Che noia. Io, invece, mi scateno: spazio dal bluegrass al rock. Deve sentire la mia versione di Boom, Boom, I’m Gonna Shoot You Right Down del grande John Lee Hooker (comincia a cantarla, ndr). Probabilmente quando ero piccolo m’hanno lavato con la varechina, perché io mi sento un afroamericano vero. Come Elvis».

Quanto l’ha amato?
«Tantissimo. Sono stato a visitare anche la casa in cui nacque, a Tupelo, una baracca di legno rialzata per evitare che i serpenti si infilassero tra le travi. A settanta metri c’è la chiesa di religione battista in cui Elvis da bambino andava ad ascoltare i cori gospel: gli hanno dedicato una grande statua in bronzo. In concerto lo omaggio con Hound Dog e Can’t Help Falling In Love, ma rifatta in chiave reggae. E sa perché?».

Perché?
«Quando una melodia è bella la si può rigirare come si vuole in padella, ma sempre bella rimane».

Nel pop e nel rock di oggi ci sono grandi melodie?
«La musica di oggi è quella che è… Io non critico gli artisti, ma i discografici: fanno cantare a questi ragazzi pezzi mediocri. Io sono sicuro che i giovani artisti vorrebbero alzare l’asticella, ma i discografici non glielo permettono. Sogno di vedere una ragazza a Sanremo con la chitarra acustica, tipo Shania Twain».

Che immagine le viene in mente se ripesa al suo primissimo Festival di Sanremo, quello del 1964 con Una lacrima sul viso?
«Io che esco dal Casinò di Sanremo (all’epoca il Festival non si svolgeva ancora all’Ariston, ndr) in preda a un attacco di panico dopo aver visto le prove di giganti come Paul Anka e Gene Pitney: “Cosa ci faccio qui?”, pensavo. Avevo 18 anni ed ero arrivato lì con 10 mila lire, mamma me le aveva messe nella tasca della giacca prima di partire: “Fattele bastare per pranzi e cene”. In quel momento spuntò Little Tony, in gara con Quando vedrai la mia ragazza: era già una star. Aveva cinque anni più di me: per lui ero un fratellino. Mi abbracciò e mi tenne con sé per tutta la settimana».

Ha un ricordo particolare legato alla vostra amicizia?
«Il giorno della morte di Elvis, il 16 agosto 1977. Eravamo entrambi in lutto. Tony mi disse: “Roberto, ora che il Re è morto non possiamo giocare più. È ora di crescere”».

Gli Anni ’70 che decennio furono per lei?
«Buio. Arrivarono i cantautori. E il mio telefono smise di squillare. A un concerto a Pineta Sacchetti mi lanciarono un sasso: scheggiò la mia bellissima Stratocaster celeste. In camerino mi misi a piangere. Decisi di sparire per un po’: me ne andai a fare alcuni concerti a Santiago del Cile. Una mattina alle 6 con la chitarra scrissi una canzone che si intitolava Gelosia. Era il 1980. Il mio manager di allora mi convinse a tornare in Italia e a farla ascoltare a Gianni Ravera, patron del Festival di Sanremo».

Fu così che la ruota riprese a girare?
«Mi rilanciò. Feci quattro Sanremo di fila. Ora invece sono vent’anni che provo a tornare in gara, ma non mi prendono».

È vero che il grande Claudio Villa un giorno le disse che se lei fosse nato in America, sarebbe diventato qualcuno?
«Già. Ricordo una partita a scopa su un treno, di notte, al confine tra Germania e Danimarca, quando giravamo il continente con il Cantaeuropa. Uscì dalla sua cuccetta con un kimono con un dragone d’oro dietro: girava così perché aveva venduto milioni di copie in Giappone con un 45 giri. Mi disse: “A Bobby, io non vinco: umilio”. Vinsi io, però. E lui per otto giorni non mi rivolse parola».

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