«Nessuno può garantire che la situazione nella regione rimarrà la stessa se i sionisti continueranno i loro crimini di guerra». La previsione, arrivata all'incirca una settimana fa, era del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. Parole che sembrano in qualche modo anticipare i problemi odierni del comandante in seconda della Guardia Rivoluzionaria iraniana Ali Fadavi che ha paventato un attacco missilistico contro la città di Haifa. Ma davvero Teheran ha interesse a un coinvolgimento così diretto? O mostrare i muscoli è solo un modo per spingere Israele – com'è accaduto - a rinviare l'invasione massiccia di Gaza?
Gli analisti proponendono per la seconda. In fin dei conti le immaggini dell'orrore arrivate dalla Striscia dopo la controffensiva di Gerusalemme hanno già permesso all'Iran di raggiungere l'obiettivo fissato quando si è deciso di dare supporto all'azione di Hamas: screditare Israele agli occhi dell'Arabia Saudita, nel momento in cui gli Stati Uniti stavano orchestrando un avvicinamento tra le parti che avrebbe messo in un nicchia proprio Teheran.
D'altra parte è certo che le potenze internazionali non possano e non vogliano sottovalutare la minaccia. «Il piano dell’Iran è di attaccare Israele su tutti fronti. Se realizziamo che vogliono colpirci noi attaccheremo la testa del serpente, l’Iran», ha assicurato il ministro dell’Economia israeliano Nir Barkat. Una tensione che ha spinto il presidente Usa Joe Biden ad aumentare il pressing sul premier Benjamin Netanyahu per frenare sull'azione militare. Ma, ad ogni modo, di fronte al rischio escalation, gli Stati Uniti hanno iniziato a muovere i propri mezzi. Le portaerei sono in posizione, i missili terra-aria Patriots pronti a essere sganciati, duemila soldati sono stati allertati, soprattutto esperti di logistica e artificieri. «Abbiamo il diritto di difenderci e non esiteremo a intraprendere azioni appropriate», ha ribadito il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin. Insomma, se Teheran attacca Tel Aviv, il coinvolgimento americano sarebbe una conseguenza praticamente diretta. Al netto delle incertezze di Washington legate a un “magazzino” di armi già pesantemente svuotato dagli aiuti garantiti all'Ucraina per resistere all'offensiva russa.
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Sicurmente si tratterà di una guerra a distanza: non ci sarà con certezza una campagna di terra, non essendoci, ad esempio, regimi da rovesciare o dittatori da destituire, ma sarà un battaglia di logorio, con i missili sganciati per colpire obiettivi sensibili e mettere in ginocchio il Paese.
Il confronto tra gli eserciti
Numeri alla mano, non c'è paragone. Washington investe nell'industria militare 816 miliardi, Teheran appena 25. E se il divario in acqua appare incolmabile – l'Iran può contare su nove fregate e quattro sommergibili. Numeri irrisori se paragonati alla Us Navy – il pericolo per l'America e per Israele arriverà dal cielo. E lì che Teheran sta investendo, implementando la costruzione dei cosiddetti droni kamikaze (gli Shahed-131 e Shahed-136) e di quelli da ricognizione e intelligence (i Mohajer-6). Mezzi di cui si è parlato nei mesi scorsi, dopo la loro comparsa in appoggio alla Russia negli scenari di guerra ucraini. Versante sul quale pare che Teheran abbia garantito a Putin anche una fornitura di missili balistici a corto raggio Fateh-110 e Zolfaghar.
Sono proprio i missili il fiore all'occhiello dell'esercito degli ayatollah. Ci sono gli Shahab-1, missili balistici a corto raggio dalla gittata massima di 330 chilometri capace di trasportare, eventualmente, testate nucleari e gli Shahab 3 a medio raggio che consentono di colpire obiettivi a una distanza di circa 1.300 chilometri. E poi ci sono i Soumar, missili cruise con un raggio d'azione che va dai duemila ai tremila chilometri. Ad equipaggiarli un esercito che si compone di circa 120 mila uomini.