La crisi arrivò tra il 7 e l'8 agosto 2019, come un'improvvisa grandinata di fine estate che distrugge i grappoli pronti per la vendemmia lasciando i tralci nudi e avviliti. Tuoni lontani si udivano da tempo. Il più forte pure inavvertito in alcune ali del Palazzo c'era stato il 6 agosto. Rientrato dal Papeete, Matteo Salvini aveva riunito al Viminale 41 sigle sindacali, tra rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, per uno degli incontri del governo parallelo che seguivano o precedevano quelli con Giuseppe Conte a palazzo Chigi, costringendo il povero Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro, a partecipare a entrambi. Ma il clima era diverso. «Matteo chiedeva a ciascuno di noi che cosa fare» mi racconta Durigon «e noi tutti dico tutti gli dicevamo che non c'erano più le condizioni politiche e tecniche per andare avanti. Quel 6 agosto, anche le associazioni capirono che tutto era cambiato».
Il 7 agosto ci fu il voto al Senato sul Tav e la firma sul decreto sicurezza bis. Subito dopo, Salvini chiamò Giancarlo Giorgetti, che era a pescare in Valle Spluga, e gli disse: «Ho deciso di rompere». Perché, chiedo a Salvini, ha aspettato il 7 agosto per aprire la crisi? «Certo, potevo aprirla anche una settimana prima, il 28 luglio...». Sarebbe stato diverso. «Posso essere sincero? Ho voluto aspettare fino alla fine. E la fine era il Tav. Il dibattito del 7 agosto sul Tav era surreale. Noi e i 5 Stelle eravamo due mondi diversi. Il sole e la luna. Il giorno e la notte. La crescita e la decrescita felice, l'illusione che per andare avanti bisognerebbe tornare indietro. La settimana prima, una riunione allucinante di nove ore sulla giustizia senza cavare un ragno dal buco. L'ennesimo vertice sulle autonomie per partorire zero. Abbiamo litigato continuamente sull'economia, per poi sentirmi rispondere che non potevamo allargare subito la flat tax. Perfino sull'immigrazione ricevevo continuamente lettere da Conte che cavillava sugli sbarchi. Liti continue anche sull'agricoltura e la scuola, perché i nostri ministri erano paralizzati. Conte aveva scippato la semplificazione burocratica alla Bongiorno... Insomma, non aveva più senso andare avanti. Così il giorno stesso del voto sul Tav andai prima da Mattarella e poi da Conte».
E il capo dello Stato? «Ero stato più di una volta da lui, perché era preoccupato per l'alto tasso di litigiosità che vedeva nel governo. Gli dissi che non eravamo più in condizione di lavorare. Lui ne prese atto, e rispose che non avrebbe fatto il regista di operazioni di palazzo, non avrebbe spinto per una soluzione piuttosto che per un'altra. Gli dissi che la scelta migliore mi sembrava sciogliere le Camere. Lui rispose che avrebbe valutato. Il risultato è un paese più bloccato di prima». Avvertì Di Maio? «Conte mi chiese di poterci parlare prima lui. Ho sbagliato ad accettare, e Di Maio me lo ha rimproverato». Come spiegò a Di Maio la sua decisione? «Gli dissi che avevano tirato troppo la corda. Avevo capito che non sarebbe andata a finire bene già il giorno dopo le elezioni europee. Invece di seppellire l'ascia di guerra, si erano moltiplicati gli insulti». E lui come reagì? «Era molto dispiaciuto. Mi chiese di completare almeno il taglio dei parlamentari . Gli dissi che era tardi, ma che avrei sostenuto comunque la legge che avevamo già votato favorevolmente nei precedenti passaggi».
Le è dispiaciuto lasciare il Viminale? «Certo. Il ministero dell'Interno consente di risolvere i problemi. Aggiunga la vicepresidenza del Consiglio... Sono contento di aver governato per 14 mesi, ma era ora di tagliare».
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