“Lettere dal fronte Covid-19” di un'infermiera in terapia intensiva: «Abbandonata, sola e impaurita ho continuato a lavorare»

“Lettere dal fronte Covid-19” di un'infermiera in terapia intensiva: «Abbandonata, sola e impaurita ho continuato a lavorare»
di Maria Lombardi
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Martedì 12 Maggio 2020, 15:45 - Ultimo aggiornamento: 16:34

Il primo paziente Covid-19. Martina Benedetti, infermiera di 27 anni del reparto di terapia intensiva dell'ospedale Noa di Massa Carrara, lo chiama il Signor A«perché dire paziente non mi piace». É il primo di cui si prende carico, siamo agli inizi di marzo non si immagina ancora quello che accadrà. «Il Signor A. ha un tubo orotracheale collegato ad un ventilatore meccanico.... Il Signor A. è sedato....Il Signor A. ha un catetere venoso centrale...... Il Signor A. ha un sondino nasogastrico... Il Signor A. ha un’arteria incannulata...... Il Signor A. ha un catetere vescicale.... ». Scene così Martina ne vede tutti i giorni, solo che il Signor A. ha contratto un virus che nessuno sa ancora come curare. L'emozione di quei momenti non se ne andrà. «L’estremo disagio che ho provato non se ne è andato fino al momento in cui sono entrata nel piatto della doccia ed il getto d’acqua sulla mia pelle ha lavato via paura, impotenza, spossatezza e frustrazione», racconta Martina nell'instant book scritto a quattro mani con l'amica Anna Vagli, scrittrice e criminologa, in uscita su Amazon. «Non siamo pronti.  Lettere digitali dal fronte Covid-19», è il titolo. 


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«Cara Anna, non scorderò mai la sensazione di quando ho preso in carico il primo paziente Covid-19, era la prima settimana di marzo». Il racconto di questi mesi in uno scambio di lettere tra Martina, in corsia, e Anna, in lockdown. «Cara Martina, provo nuovamente a mettermi nei tuoi panni. Sentimenti di grande spinta emotiva, costantemente minacciati dall’angoscia, dal terrore e dall’incapacità di prevedere quello che verrà». Un diario di questi mesi a cui non eravamo pronti. Martina i primi giorni indossava  tute che non coprivano le gambe, mascherine che non andavano bene, «la prima volta che mi sono vestita ho chiesto ad una collega di osservarmi per evitare di sbagliare....». 




Martina a metà marzo aveva scritto un lungo post su facebook al termine di un turno di notte. Aveva raccontato del sudore con la mascherina e la tuta, dell'afa che taglia il respiro, dei doppi guanti, svestirsi con la massima attenzione perchè sei infetta e basta un minimo sbagli e si rischia il contagio, raccogliere lacrime e paure,intubare e consolare. Il suo post era diventato virale.


E ha continuato a scrivere, a dialogare a distanza con la sua amica Anna. C'è tutta la sua paura, in queste lettere, la sua rabbia e il suo dirorienamento. Anche il suo coraggio. 
«In quei giorni ho lavorato quasi sempre con maschere FFP2, non indicate per le manovre invasive che effettuavo. Lo sapevo bene, ma era ciò che mi veniva fornito. Che cosa potevo fare Anna? Rifiutarmi di entrare? Restare a casa come qualcuno ha fatto? No, non mi sarei mai sentita in pace con me stessa, con la mia coscienza e così varcavo quella porta con la paura costante addosso. Avevo paura ma ho continuato a lavorare ogni giorno.....Come potevo fidarmi di chi non ci stava dando risposte valide in quel momento? Di chi ci diceva “tranquilli, andrà tutto bene” non avendo mai messo nemmeno il naso nelle nostre realtà? Abbandonata Anna, mi sentivo abbandonata e sola, con la piccola speranza, in cuor mio, che alla fine ognuno avrebbe dovuto fare i conti con le responsabilità riconoscendo i propri limiti ed errori. Arriverà mai quel momento?»








 

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