L’eterno dialogo tra anime contrapposte

L’eterno dialogo tra anime contrapposte
di Lucetta Scaraffia
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Venerdì 17 Ottobre 2014, 16:20 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 17:00
Paolo VI è stato spesso raccontato come un uomo tormentato dai dubbi e dalle incertezze, ma guardando bene alla sua vita e alle sue decisioni si può dire che si tratta di un’interpretazione sbagliata.



Che rivela piuttosto l’incertezza di chi ha sempre trovato molte difficoltà a iscriverlo in uno dei due grandi schieramenti in cui sembrava essersi divisa la Chiesa prima, durante e dopo il concilio: conservatori e progressisti.



Questa difficoltà interpretativa della figura di Montini emerge soprattutto in alcune circostanze, anche se appare presto, da quando fu innovativo e fervido assistente ecclesiastico degli universitari cattolici da un lato e poi stretto collaboratore di Pacelli dall’altro. Il periodo in cui fu arcivescovo di Milano sembrò il momento in cui gli aspetti interpretati come due anime contrapposte trovarono un equilibrio più felice.



Montini fu infatti un grande vescovo e seppe aprirsi al nuovo – basti pensare alle oltre cento chiese costruite o progettate nelle periferie della città – ma restando fedele alla grande tradizione del cattolicesimo lombardo dalla quale proveniva lui stesso.



Se la partecipazione alla prima fase del concilio fu contrassegnata da una certa prudenza riformatrice, la decisione di continuarne i lavori dopo l’elezione al pontificato nel 1963 fu percepita come progressista dall’opinione pubblica, e da quel momento ogni suo intervento venne interpretato sotto una luce innovatrice.



Bisogna ricordare che l’attenzione dei media per ciò che avveniva nella Chiesa era ancora nuova: era stato il concilio, infatti, a convincerli che bisognava parlarne, e solo in quegli anni si formò una schiera di giornalisti specializzati: i vaticanisti. Si può ben capire, perciò, il loro bisogno di semplificare posizioni e schieramenti, sull’onda del grande entusiasmo acceso dalle parole e dalle scelte di Giovanni XXIII.



Le riforme della Curia per avvicinare la Chiesa alla povertà delle origini, le aperture segnate dai viaggi in tutto il mondo, l’attenzione all’ecumenismo e alle diverse religioni – come ben testimonia il suo viaggio in Terrasanta nel gennaio del 1964 – contribuiscono a consolidare l’immagine positiva di Paolo VI, come quella di un cristiano aperto al mondo, agli altri e alla modernità.



Dialogo era del resto era la parola chiave della sua prima enciclica, forse la più importante: l’“Ecclesiam suam”, pubblicata nell’estate del 1964.

Il discorso tenuto alle Nazioni Unite nel 1965, nel corso del quale pronunciò il grido divenuto celebre “non più la guerra, non più la guerra!”, fu un importante gesto storico. Questo lo definiva come sincero pacifista e confermava anche la sua capacità di aumentare il peso internazionale della Santa Sede con l’apertura verso la Cina comunista.



Non è difficile individuare nel suo pontificato una prima fase, dal 1963 al 1968, di sostanziale apprezzamento dell’opinione pubblica, durante la quale la sua immagine prevalente era quella dell’innovatore, che apriva la Chiesa alla modernità. Del resto, grande interesse e giudizi per lo più favorevoli aveva riscosso in quello stesso periodo il concilio Vaticano II, salutato da tutti come un importante segnale di avvicinamento della Chiesa al mondo moderno.



Dal 1968 alla morte, dieci anni dopo, cambia tutto: si parla di crisi della Chiesa, abbondano le metafore di tempesta, viene rimessa in gioco l’immagine del pontificato. Con una crisi senza precedenti dell’autorità papale che nasce dalle questioni toccate da Montini: il celibato ecclesiastico, l’uso dei contraccettivi, il caso olandese, che si intrecciano ai rivoluzionari cambiamenti in corso nelle società occidentali.



Paolo VI comincia allora a essere descritto come incerto fra progresso e conservazione, lacerato dal dubbio. Al centro di questo cambiamento sta l’“Humanae vitae”, enciclica dibattuta sulla stampa mondiale in modo molto più ampio degli altri documenti papali: nei quindici anni di pontificato, nessun altro testo papale è stato così a lungo al centro di commenti, articoli, polemiche.



Fu proprio la lunga gestazione dell’enciclica, i ripetuti interventi di modifica nella composizione della commissione che se ne occupava, a far pensare a una profonda incertezza di Paolo VI sulla decisione da prendere. Decisione che avrebbe avuto un forte impatto non solo sulla vita dei cattolici, ma anche sull’immagine della Chiesa e ancor più su quella del papa stesso.



Del resto, a favore della contraccezione medica si erano già pronunciate non solo le confessioni protestanti, ma anche quella anglicana, e tutto faceva pensare che Paolo VI avrebbe continuato nel suo percorso “progressista”. Quando ciò fu smentito dai fatti, l’unica via per tenere insieme le due immagini – del pontefice aperto e del papa che firma l’enciclica contro la pillola – è quella di dipingerlo come incerto e dubbioso.



L’enciclica arrivava in totale controtendenza rispetto alle ideologie imperanti, e anche rispetto alle aspettative nate in proposito nel mondo cattolico. Paolo VI certo non si poneva il problema di sembrare moderno per riscuotere il plauso dei media in quel particolare momento storico. Montini aveva affinato una straordinaria capacità di essere in sintonia con il tempo, millenario, e con lo spazio, mondiale, della Chiesa, e in base a questa doppia sintonia orientava le sue decisioni.



Sappiamo che l’“Humanae vitae” fu molto apprezzata nei paesi del Terzo mondo, dove la spinta alla denatalità veniva vista come un’imposizione dell’imperialismo, e proprio la capacità del papa di non rimanere prigioniero delle logiche del momento gli hanno permesso, nei confronti delle tecniche medico-scientifiche in atto, di formulare critiche che solo oggi possiamo comprendere. Un papa per nulla dubbioso, dunque, ma capace di decidere su un piano più alto. Un uomo che non molti hanno capito.
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