Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Il “soft power” dimenticato nelle società aperte

di Luca Diotallevi
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 22 Novembre 2023, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 23 Novembre, 00:02

Il fronte delle società aperte sta attraversando un momento davvero difficile. Le crisi si vanno aggravando e moltiplicando. Trovare un equilibrio tra efficacia e misura è complicato e non sempre riesce: in Ucraina ed in Medio Oriente, ma anche in Estremo Oriente, nell’Africa sub-sahariana, in Sud America, nel Corno d’Africa, e persino in posti insospettabili come l’Artico.


Le società libere sono ormai continuamente impegnate su più fronti: quello degli avversari di democrazia e diritti, quello di un Sud Globale che gioca su più tavoli, ma anche su di un fronte interno. Le piazze ed i media Occidentali sovente parteggiano per avversari e nemici.


Soprattutto il secondo ed il terzo fronte rimandano ad una crisi di soft power. Le società aperte mostrano un crescente duplice deficit. Da una parte – all’interno – cresce il deficit di convinzione nelle opzioni di valore alla base del proprio sistema, dall’altra le società aperte sono sempre meno capaci di attrarre aspirazioni e sogni collettivi dal resto del mondo. Se andiamo con il pensiero ai primi anni ’60, all’inizio della presidenza Kennedy, troviamo che allora l’Occidente non primeggiava solo in armamenti (ancora è così, anche se un po’ meno di allora), in potenza economica (è vero, ma ormai solo per un pelo), ma primeggiava incontrastato anche e forse soprattutto in soft power: convinzione & attrazione (e davvero non è più così).


Tra le tante recenti dissociazioni, vale la pena ricordare il riposizionamento di una parte dei vertici vaticani in una sorta di limbo di indifferenza rispetto a regimi ben diversi, a differenza di quanto avvenne con il Vaticano II e poi per un lungo periodo successivo. Le società libere stanno perdendo alcuni dei loro pilastri costitutivi, anche tra quelli di più recente ed apparentemente solida acquisizione.


Anche sotto questo profilo è davvero difficile non apprezzare lo sforzo della amministrazione Biden di bilanciare sicurezza, diritti e moderazione. Biden, però, non rappresenta affatto una generazione politica successiva rispetto a quella dei suoi predecessori, bensì una generazione politica precedente. Biden nasce nel 1942 (Obama nel 1961), comincia a fare politica negli anni ’60, diviene senatore nel 1972. Biden è il tipico rappresentante di una cultura politica trionfante nei primi anni ’60 e con radici ben più antiche. È a questa cultura politica (con varianti tanto di destra quanto di sinistra) che consapevolmente o meno l’Occidente libero torna ad aggrapparsi in un momento difficile.


Come mai di quella cultura politica scarseggiano esponenti più giovani? La crisi attuale del soft power delle società libere non nasce da sconfitte subite “in trasferta”, ma da sconfitte “in casa”.

Della cultura di cui Biden è esponente fu il ’68 ad essere il primo killer. Il politically correct a sinistra ed i vari fondamentalismi a destra ne sono oggi i becchini. La cultura politica che in Occidente dominava negli anni ’50 e ’60 era fatta di un mix di impasti e distinzioni: “politica e … “ (ed economia, e diritto, e morale, e religione, e …).

Fu quella cultura politica che concorse a generare un soft power capace di arginare crisi, risolvere tensioni, accompagnare il sorgere di istituzioni che hanno generato inclusione e garantito libertà in misura ancora non eguagliata. Quella cultura politica contribuì a qualcosa che non si sarebbe potuto raggiungere solo con il military power e l’economic power. Quella cultura politica accettava il travaglio e la fatica della complessità sociale e storica: fatica e travaglio di cui i fondamentalisti e le sardine di oggi non sono capaci e che rifiutano per principio. Quella cultura politica non può essere copiata e neppure dovrebbe esserlo, visto che non fu priva di limiti e di gravi responsabilità. Tuttavia, può di nuovo essere fonte di ispirazione. Essa manifesta un’idea di politica che non si confonde con il sociale, ma che neppure se ne separa; una politica che conosce e riconosce al proprio esterno interessi, regole, valori e limiti; una politica non guidata solo dagli appetiti suoi propri.


Nel pieno di crisi andiamo verso un anno elettore eccezionale (si voterà tra l’altro per il Parlamento Europeo e per la Casa Bianca). Questi appuntamenti misureranno la volontà e la capacità delle società aperte di riprendere un filo spezzato. La sfida che abbiamo di fronte è politica e non-solo-politica. Non è affatto detto che si riesca a vincere in Ucraina e contro Hamas. E, anche si vincesse, a contare sarà anche come si vincerà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA