Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Verso il Congresso/ I nemici del Pd che indossano la casacca del Pd

di Luca Diotallevi
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Martedì 22 Novembre 2022, 00:16

Chi ha a cuore la democrazia italiana, qualsiasi orientamento politico abbia, non può essere indifferente a quanto sta avvenendo nel Pd. E visto che quanto sta avvenendo nel Pd manifesta chiaramente la confusione e lo smarrimento che dominano in quel partito, la non indifferenza è destinata a tramutarsi in preoccupazione seria. Se guardiamo a quanto avviene nelle democrazie delle società libere, vediamo la conferma di quanto già sappiamo e di quanto dirigenti ed iscritti del Pd dovrebbero sapere più degli altri. A sconfiggere Trump ed a metterne in crisi le sue voglie di rivincita non sono stati Sanders o la Ocasio-Cortez, ma il vecchio Biden. A riportare il Labour in pole position per la corsa a Downing street non è stato Corbyn, ma Starmer. Melénchon ha ucciso il Partito socialista che fu di Mitterrand e di Rocard, ma ha reso inutili i voti che ha raccolto per perpetrare quel delitto. I verdi e mezza SPD non seguono affatto il cancelliere Scholz quando pur di portare a casa qualche buon affare con Cina e Russia espone al loro ricatto la sua Germania e la nostra Europa.

In breve, che si tratti di Stati Uniti o di Gran Bretagna, di Francia o di Germania la regola è la stessa: i cambiamenti veri li fanno i riformisti, i rivoluzionari non sono altro che reazionari sotto mentite spoglie. Gli elettorati si spostano. In Italia ne abbiamo avuto prove eclatanti: in quanti sono passati dal 4% al 30% (e ritorno) in un attimo! Finalmente anche gli elettori italiani non hanno più padroni. Esempio (non) a caso: i voti del M5S non li sposti alleandoti con Di Maio o con Conte, ma facendo all’elettorato meridionale una proposta migliore. Se insisti ad inseguirli, sei tu a regalare i tuoi voti a quelli che insegui.

Si diceva che i dirigenti e gli iscritti del Pd la differenza tra “sinistra utile” e “sinistra inutile” dovrebbero conoscerla meglio degli altri. Il Pd, infatti, era stato inventato tra il 2006 ed il 2007 per traghettare il pezzo più grosso della sinistra italiana dai salotti della “sinistra inutile” all’officina della “sinistra utile”; era stato inventato per rilanciare una promessa che i Progressisti e l’Ulivo non avevano saputo mantenere. Puntualmente, Progressisti e Ulivo erano implosi perché non avevano voluto operare un taglio netto con il passato.
Il Pd era nato per aderire al modello della democrazia competitiva e governante (vocazione maggioritaria), anche nella propria vita interna (primarie). Aveva scelto di competere non a suon di slogan e di doppiezze, ma sul terreno della cultura e delle proposte di governo. Questa identità emergeva innanzitutto da due opzioni che più di tutte le altre lo avvicinavano alle sinistre democratiche dei paesi occidentali: unificazione della leadership di partito e della candidatura a guidare l’esecutivo (dal piccolo comune a Palazzo Chigi), indifferenza nei confronti di eventuali “nemici a sinistra” (ovvero: immunità al fascino perverso e nefasto della “sinistra inutile” qualsiasi ne fosse la forma ed il marchio).

Oggi, invece, a riprova della confusione e dello smarrimento che dilagano nel Pd, quasi non vi è in quel partito chi non chieda un congresso rifondativo, una ridefinizione della identità del Pd.

Buffo, no? Buffo davvero, se si considera che l’unica cosa che del Pd sembra poter ancora funzionare è la sua intuizione originaria, la sua identità. A chi guarda con un minimo di pacatezza alle vicende del Pd, appare chiarissimo che il problema non è il know how di quel partito, ma tutto il resto; il problema del Pd non è l’anima e neppure il corpo in generale, ma la testa. Il problema vero, e grave, è il gruppo di dirigenti (in fondo non di più di qualche decina di persone) che non ha mai digerito la nascita del Pd (scelta in parte non piccola imposta dal basso e dagli eventi). Non si può dire che la vecchia nomenclatura formata da un pezzo di Dc ed un pezzo di Pci-Ds non avesse preso sul serio il Pd. Lo aveva preso drammaticamente sul serio, aveva capito perfettamente che quanto più il Pd fosse cresciuto tanto meno ci sarebbe stato spazio per reduci e nostalgici della “repubblica dei partiti”.

Cominciò Veltroni, (af)fondatore del Pd: alla prima occasione utile, in barba alla “vocazione maggioritaria”, si inventò il suo bravo “campo largo” imbarcando il capostipite di tutti i populisti nostrani: Antonio Di Pietro. Con gli anni, quegli ex-Dc ed ex-Pci/Ds lavorarono meticolosamente alla distruzione del Pd sino farne l’ammasso di crepe e di macerie che oggi ne resta. (Il caso Renzi meriterebbe un discorso a parte e trattandolo non si dovrebbe trascurare che sulle prime da lui era venuta una sfida vera a quella nomenclatura.)
Quello che doveva essere il partito della vocazione maggioritaria e della “sinistra utile” ha prima vanificato e poi annullato le primarie, poi, e non a caso, un segretario cooptato (Enrico Letta) ha finito con l’annegare il Pd nell’ennesimo “campo largo” per stenderlo esanime ai piedi di Conte (o poco meno).

Se passa l’idea di un congresso di ridefinizione della identità del Pd, la controrivoluzione di quel manipolo di ex-Dc ed ex-Pci/Ds potrà dirsi compiuta con successo. Saranno loro ad aver vinto, qualsiasi sia il volto nuovo o seminuovo dietro il quale si saranno nascosti. Se saranno loro ad aver vinto, il Pd sarà stato raso al suolo.
In definitiva, la domanda che oggi si impone è la seguente: in quella cosa che si chiama “Pd” c’è ancora qualcuno disposto a battersi per quella idea che si chiama “Pd”? Si tratta di una domanda che potrebbe non restare aperta a lungo. Il congresso che si sta per aprire potrebbe avere base strategica la rimozione di questa domanda. In questo caso il Partito democratico sarebbe stato definitivamente consegnato agli archivi e la domanda di una “sinistra utile” si volgerebbe altrove in cerca di qualcuno che accetti la sfida

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