Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Il caso tedesco/L’importanza di un esecutivo con i poteri di decidere

di Luca Diotallevi
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Giovedì 27 Ottobre 2022, 00:38 - Ultimo aggiornamento: 23:22

Il 4 novembre il cancelliere tedesco Scholz si recherà a Pechino e incontrerà il capo supremo di quel regime, Xi. Sarà il primo leader occidentale a farlo dopo la riconferma di questi al vertice del partito, dello Stato, del governo, della magistratura e delle forze armate cinesi. Sarà anche il primo leader occidentale a farlo dopo lo stop agli incontri al vertice causa pandemia. Importa qualcosa a noi se Xi e Scholz si incontrano e se Scholz lo fa portandosi dietro come sempre un nutrito gruppo di imprenditori tedeschi?


Il 31 ottobre il governo tedesco dovrà dare la risposta finale circa l’acquisto di una delle realtà in cui è articolato il mega-porto di Amburgo (il terminal Tollerort). La risposta deve essere data alla società che ha avanzato la proposta di acquisto, la Cosco, società controllata dal partito-stato cinese. Ci riguarda forse la vendita di qualche molo del porto di Amburgo?


Sì, la cosa ci riguarda, ci riguarda molto e molto da vicino. Per almeno quattro ragioni.
Prima ragione. L’Unione Europea ci poteva mettere molto meno di quello che ci ha messo per trovare ed attuare le risposte alla guerra che Putin ha mosso alla Ucraina ed alla “guerra economica” che ha mosso a tutti noi se la Germania fosse stata più libera dal gas russo (e dal legame troppo stretto tra la propria economia e quella russa). Nessuno contesta il peso “reale” che la Germania ha sugli affari europei, che sono anche affari italiani, e nessuno è così cieco da non vedere che la Cina potenzialmente è una Russia all’ennesima potenza. L’economia tedesca è profondamente legata al suo export verso la Cina. Verdi, liberali e molta Spd (la coalizione di governo a Berlino) spingono per liberarsi da questa condizione di sudditanza. Scholz (tra l’altro ex sindaco di Amburgo) spesso fa invece “orecchie da mercante”.


Seconda ragione. La libertà e l’efficienza del commercio marittimo è tuttora una condizione primaria dello sviluppo economico e civile su scala globale. Tutti abbiamo sperimentato e pagato la strozzatura che con la pandemia si è prodotta in questo delicato e decisivo settore. L’Italia, che deve importare tanto e può permetterselo solo esportando tantissimo, lo sa bene. Tre tipi di politiche cinesi mettono in pericolo libertà ed efficienza del commercio marittimo globale. (1) L’attività militare volta al controllo di gangli strategici dei traffici marittimi, dotandosi di una marina d’altura, stabilendo basi navali un po’ dovunque, se serve letteralmente inventando isole per impossessarsi di mari non suoi (come nel caso dell’arcipelago Spratly). (2) La creazione di colossi dell’industria dei trasporti marittimi (come la Cosco) sottratti al controllo del mercato ed alla competizione ed invece subordinati al controllo del partito-stato, controllo che – come su tutta l’economia cinese – con Xi Jinping e con il XX congresso appena concluso è tornato a crescere, invertendo i timidi segnali di apertura di qualche lustro fa. (3) Attraverso l’acquisizione e il controllo di porti occidentali: una politica che in Europa è ad uno stadio tanto avanzato quanto colpevolmente trascurato dall’opinione pubblica.


Terza ragione. Non da ultimo grazie alla generosità dei governi Conte, la Cina è già molto presente nei porti italiani: Taranto, Vado ligure, Trieste. L’acquisto del terminal Tollerort del porto di Amburgo segnerebbe un ulteriore salto di qualità. Si dà il caso che questo “pezzo del porto di Amburgo” possiede il 50,1% della piattaforma logistica del Porto di Trieste. Se quella “cosa” (ad Amburgo) diventa di proprietà cinese, anche questa “cosa” (a Trieste) lo diventa. Rispondere adeguatamente a queste mire cinesi, ricordiamolo, condotte da società controllate dal partito-stato cinese non significa difendersi dal mercato, ma difendere il mercato.

Rispondere richiede un tessuto di imprese vivaci, ma richiede anche una intelligente e tempestiva azione dei governi.


È tutto? No, non è tutto. I fatti sommariamente raccontati ci interessano anche per una quarta ragione.
La Cina può fare quello che fa perché ha un esecutivo forte, un esecutivo che può programmare e non deve “tirare a campare”, un esecutivo che può decidere. Attenzione, però, a liquidare questa condizione come una condizione esclusiva dei regimi illiberali ed antidemocratici. Esiste infatti una via liberale e democratica, costituzionale nel senso più proprio del termine, per assicurarsi un esecutivo forte, altrettanto se non ancora più forte. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania in modi diversi (presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato, cancellierato) si sono garantiti da secoli (nei primi due casi) e da decenni (nei secondi due) esecutivi dotati della forza necessaria per poter programmare (su tempi medi e lunghi) e decidere (su tempi brevi). Lo hanno fatto dotandosi anche di leggi elettorali adeguate e di contrappesi efficaci, lo hanno fatto combinando esecutivo forte ed elevatissime dosi di federalismo di funzioni, città e territori. Infatti, è nei casi in cui il potere politico è attribuito in modo chiaro e congruo rispetto ai compiti che è possibile controllarlo democraticamente nel modo più efficace, non così quando il potere politico è sparpagliato, confuso e nascosto come da noi.

Un esecutivo forte è un presidio per l’indipendenza del Paese e, nello stesso tempo, non è un ostacolo per le istituzioni globali delle “società libere”. Istituzioni come Ue e Nato traggono un vantaggio enorme dal fatto che ai loro tavoli siedano presidenti come quello statunitense o francese, il premier inglese ed il cancelliere tedesco. Quanto può contare, di per sé, un presidente del Consiglio italiano che nel suo governo è solo un primus inter pares e al quale per prendere decisioni non basta prendere tanti voti, ma è indispensabile anche ottenere continui permessi da chi di voti ne ha presi pochi? E infatti di per sé conta poco, e comunque meno di quanto potrebbe e dovrebbe contare.


L’altro ieri, in Parlamento, la presidente Meloni ha posto la questione. L’ha posta in modo istituzionalmente corretto, l’ha posta in termini assolutamente compatibili con il dettato della nostra Costituzione, e l’ha posta nel modo più realistico possibile. L’ha posta partendo dal modello del semipresidenzialismo francese, modello per decenni proposto anche dalla sinistra e dalla sua componente riformista. (Un modello, ci si passi la rozza analogia, vagamente simile ad uno che gli italiani conoscono bene ed apprezzano molto: quello che regola la scelta del sindaco.)


Dotare l’Italia di un esecutivo capace di decidere e di programmare non è uno sfizio di qualche appassionato alla materia istituzionale, ma è una urgenza politica primaria, una urgenza delle urgenze, la condizione per affrontare effettivamente tutte le altre priorità, una condizione a volte per difendersi e sopravvivere. Dotarsi di un esecutivo capace di programmare e decidere è anche un modo per dare compimento ad una impresa di riformismo istituzionale che un po’ più di 30 anni fa muoveva i primi passi “dal basso” con un articolo di Pietro Scoppola che lanciava le campagne referendarie per riformare la legge elettorale. I successi che quella impresa conseguì dipesero largamente dal suo essere una impresa condivisa da riformisti di destra e riformisti di sinistra. La cosa potrebbe, e dovrebbe, ripetersi oggi.
Altrimenti? Altrimenti continuiamo a disarmare le nostre istituzioni politiche e prepariamoci a rimanere inerti di fronte a chi programma e decide.

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