Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Il Pd e quel progetto riformista dimenticato

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 21 Dicembre 2022, 00:20

N partito può perdere voti, ma quello che sta avvenendo al Pd ed ai suoi satelliti è un’altra cosa. I casi Soumahoro e “Qatargate” sono segni evidenti di una trasformazione sostanziale della struttura politica e della idea di politica nella parte più grande della sinistra italiana. I due casi tracciano una linea politica (il resto qui non interessa) che neppure sembra destinata ad interrompersi presto.

Ovviamente questa trasformazione non riguarda solo la sinistra. Lo si sa, inutile sprecare esempi. La sinistra, però, paga un prezzo più alto a causa del modo con cui ha ostinatamente voluto rappresentarsi come “moralmente diversa”. Sicché ora, alla gravità dei fatti, si aggiunge la aggravante della contraddizione.
Cominciamo dal caso Soumahoro. Il cammino che ha condotto l’onorevole Soumahoro in Parlamento prende avvio da una operazione di pura cooptazione. Per almeno due ragioni questa vicenda contraddice in modo acuto quello che il Pd voleva essere e che sulla carta ancora sarebbe. In primo luogo la candidatura Soumahoro non è il risultato di alcuna competizione democratica interna: la candidatura del neo-onorevole non è emersa né da primarie né da alcun’altra forma di competizione su programmi e biografie decisa dal voto di iscritti ed elettori. In secondo luogo, per ammissione degli stessi leader nazionali che lo hanno cooptato, la scelta di Soumahoro non ha preso in considerazione né il complesso della biografia politica del prescelto né l’orientamento di questi circa la stragrande maggioranza delle materie di cui era destinato ad occuparsi una volta eletto. Il candidato è stato scelto solo per la sua immagine, superando cioè uno scrutinio molto meno rigoroso persino di quello cui in genere viene sottoposto un potenziale testimonial di una campagna pubblicitaria.

Dopo il caso Soumahoro è arrivato il cosiddetto “Qatargate”. Quando in politica ciò che conta è solo l’immagine, anche i princìpi diventano mera facciata. All’ombra dell’immagine, però, può succedere di tutto, anche che i princìpi sbandierati vengano perfettamente contraddetti. Naturalmente con i soli princìpi, in politica come in ogni ambito della vita morale, non si fa nulla. Un conto però è usare i princìpi come paravento al riparo del quale fare di tutto, altro conto è in piena trasparenza combinare princìpi (di per sé astratti) e criteri (storicamente determinati) e così divenire finalmente capaci di ricercare il massimo della coerenza realisticamente possibile. Incarnare i princìpi invece che limitarsi a declamarli richiede sempre di pagare dei costi, ma mai di accettare qualsiasi costo. Il caso “Qatargate”, a prescindere da ogni risvolto giudiziario, una volta di più mostra cosa succede quando la logica della sola-immagine si combina con la retorica dei princìpi-puri. Una volta che è stata disattivata la democrazia interna e sostituita la cultura riformista con la retorica dei principi-puri e con la logica del quel-che-conta-è-l’immagine, può capitare di tutto. Di recente, ad esempio, al Pd è capitato di cercare sino alla fine il Conte ter e poi di adattarsi al governo Draghi. È capitato di sostenere diligentemente Draghi e poi, appena caduto, di rimuovere quella esperienza tornando al “campo largo”, non dando cioè alcun peso all’essere stati pro o contro il governo Draghi, ad averlo difeso o fatto cadere.
Ciò che sorprende è che la sconfitta del 25 Settembre sembra non aver insegnato nulla.

Il Pd era nato per affidare la selezione dei candidati ad un confronto programmatico deciso da iscritti ed elettori.

I casi Soumahoro e “Qatargate” dicono invece quanto si sia ormai lontani da quel progetto e un terzo fatto rivela che forse si è intenzionati ad allontanarsene ancora di più. Il terzo fatto è il largo sostegno (anche di storiche “correnti” del partito) a supporto della candidatura della onorevole Elly Schlein alla segreteria del Pd. Chi infatti potrebbe dire di conoscere le posizioni della onorevole Schlein riguardo alla maggior parte delle materie politiche? Eppure si tratta di una candidata alla guida del governo, perché questo statutariamente è il leader del Pd! Come si vede, persino nel caso del candidato alla guida del partito, e quindi potenzialmente alla guida del governo, ciò che conta è solo l’immagine. (Se poi si pensa al fatto che il principale competitor della Schlein è quel Bonaccini che l’ha voluta come propria vice, ci si rende facilmente conto di quanto il processo di auto-alleggerimento programmatico della sinistra politica italiana sia avanzato: perché Bonaccini scelse ieri la Schlein? E perché, se la scelse ieri, oggi non la appoggia? O viceversa. Biden non ha mica scelto Sanders come vice!)

La conclusione di un ragionamento esclusivamente politico sui tre casi citati, conclusione tutt’altro che paradossale, è che la parte principale della sinistra italiana non è affatto priva di identità. Al contrario, essa ha solo quella: una identità riconoscibilissima proprio perché astratta. L’immagine della sinistra è un simbolo che identifica, ma che non significa (e, non significando nulla, all’occasione può combinarsi con tutto o quasi).
La storia che ha condotto la parte maggiore della sinistra italiana fino a questo punto, a differenza di quanto avvenuto alla sinistra democratica in altri paesi occidentali, è nota. Alla crisi dell’ideologia marxista, il Pci di Berlinguer (ma le premesse risalgono a Togliatti) reagì non sostituendole finalmente con una opzione riformista, ma appellandosi ad una presunta superiorità morale. Il massimalismo ideologico non fu rimosso, ma ci si limitò a sostituirlo con un altro massimalismo, questa volta un massimalismo vuoto, da riempirsi all’occorrenza con quello che capita.

(Di questo massimalismo nuovo e vuoto sono stati esempi, tra gli altri, la sostituzione del principio costituzionale della libertà religiosa con quello della laicità, il modo radicaleggiante di intendere i diritti, la sacralizzazione giacobina del principio di legalità, la opzione giustizialista ed antigarantista.) Che in questo massimalismo nuovo e vuoto si siano trovate a proprio agio certe ex componenti democristiane come quelle dossettiane, andreottiane, dorotee o cristiano sociali, nonché certo spregiudicato opportunismo ecclesiastico, non può stupire.

Il Pd era nato per andare nella direzione opposta, ma alla fine il vuoto del massimalismo post-ideologico lo ha risucchiato. Non è per caso che il Congresso del Pd appena avviatosi avrà a tema la fondazione un partito diverso né è un caso che, ad oggi, nessuno si sia schierato a difesa del progetto anti-ideologico, riformista e democratico che il Pd doveva incarnare. Prendendo a prestito una scena di Don Camillo e l’onorevole Peppone (1955) uscita dalla penna geniale di Giovannino Guareschi, si può dire che alla sinistra italiana non basta affatto liberarsi di Peppone. Le è altrettanto necessario liberarsi del “compagno indipendente avvocato Cerratini”. Il secondo, ancora più ottuso, vuoto e cieco del primo, aveva ceduto al partito la propria immagine in cambio di un seggio in Parlamento.

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