Ferdinando Adornato
Ferdinando Adornato

Il Pd alla sfida del ritorno al riformismo

di Ferdinando Adornato
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Giovedì 22 Dicembre 2022, 00:18

Ma davvero la ragione più profonda della crisi del Pd si chiama “questione morale”? Ad ascoltare, in questi giorni, le contrite dichiarazioni di tutti i suoi massimi dirigenti sembrerebbe proprio che il Quatargate abbia di gran lunga spodestato la sconfitta elettorale nelle dispute di quel partito. Ormai il nodo affarismo-politica, con tanto di richiamo nostalgico a Berlinguer, viene indicato come il vero totem da abbattere per ritrovare un partito competitivo. Non si può certo negare che il problema esista e che le notizie arrivate da Bruxelles rappresentino un serio campanello d’allarme. Eppure sembra tutto sommato fuorviante immaginare che l’attuale drammatica crisi d’identità del Pd sia germogliata intorno alla “questione morale”. Non solo perché i personaggi finora coinvolti non sono di primo piano, ma soprattutto perché non pare onestamente plausibile sostenere che il declino del Pd sia dovuto agli esiti di un disinvolto intreccio tra affari e politica. Non è andata così e non risiede qui il motivo della sua sconfitta elettorale. Diciamolo chiaramente: per il congresso del Pd non si tratta tanto di sciogliere una spinosa “questione morale” quanto di risolvere una grande “questione politica”.

Tutto è cominciato con il tramonto della leadership di Renzi. Fallito il tentativo di traghettare il Pd dentro un orizzonte compiutamente riformista (per i suoi errori e per la strenua resistenza del corpo del partito), l’identità del partito si è fatta assai incerta. Si è allora cercato di aggirare il problema diluendolo nella più generale definizione di “centrosinistra”. Così l’identità del Pd è stata semplicemente immaginata come quella di un “collante”. Un partito-mediazione di identità persino confliggenti, la cui primaria missione era quella di riuscire a tenerle insieme. La cultura riformista è stata così ridotta ad una delle tante anime di un partito la cui vera idea-forza diventava quella di “garante” delle alleanze. La teoria del “campo largo” è figlia di questa strategia.
Ma ne è figlia anche la fotografia, palesemente disistimata dagli italiani, di essere ormai soltanto un puro “partito di potere”. Sempre al governo: in qualsiasi modo e con qualsivoglia alleanze. Questa è l’immagine che ha pesato sul voto. Il fatto è che la necessità di tenere unite anime ideologiche e politiche assai diverse ha fatto emergere un inquietante fenomeno che si potrebbe definire “qualunquismo del potere”. Una sorta di indifferenza ai contenuti della propria strategia. Può sembrare paradossale, ma ciò che da alcuni è stato contestato al popolo (il qualunquismo, appunto) sembra essere oggi diventata la cifra delle èlites di sinistra.

Mi spiego: nel campo largo, che va dai cattolici moderati all’estrema sinistra, non esisteva e non esiste, com’è evidente, una vera identità comune. Lo si è visto anche recentemente: si può essere, nello stesso tempo, a favore e contro la Nato. Per la libertà dell’Ucraina e simpatizzanti di Putin. Sostenitori ma anche detrattori della flessibilità del mercato. Amici dei gay-pride ma anche devoti alla Chiesa. Ci si può definire riformisti o antagonisti, liberali o comunisti senza mai temere di trovarsi fuori posto. A seconda delle stagioni e delle convenienze, infatti, l’identità di ciascuno può rivelarsi utile, se non vincente. Insomma, come il mitico Proteo, il Pd è stato capace di assumere forme assai diverse, di modo che la sua identità si è, alla fine, rivelata inafferrabile.

Intendiamoci: una quota significativa e imbarazzante di divergenze, anche intorno a temi di rilievo, attraversa pure il centrodestra. Ma nel centrosinistra, e soprattutto nel suo “collante”, essa non appare mai componibile, come invece capita al fronte opposto. L’interscambiabilità dei progetti e dei valori ha ormai assunto infatti la fisionomia di una vera e propria tecnica di governo e il “qualunquismo del potere” quella di un vero e proprio instrumentum regni. Esattamente questo significa l’immagine di un puro “partito di potere”. Perciò la parola identità si è trasfigurata nel Pd in un meta-concetto, un caleidoscopio di posizioni assai diverse. Si badi: è lo stesso fenomeno già capitato alla Dc. Non a caso anche oggi la questione delle “correnti” è tornata centrale. 
Ma, oggi come allora, il partito di potere può continuare a governare tale “convivenza degli opposti” soltanto finché, appunto, permane al potere. Viceversa, il suo castello rischia di crollare. Ed è proprio ciò che oggi sembra poter ripetersi anche con il Pd. Perciò perfino l’evocazione di una questione così seria come quella “morale” rischia di essere un alibi per non affrontare la vera grande “questione politica” che il Pd ha di fronte. C’è una sola strada credibile: quella di tornare seriamente a perseguire l’orizzonte del riformismo, superando le correnti e accettando, finalmente, di “avere nemici a sinistra”. Ma se questa via non si potesse o non si volesse percorrere, Conte da una parte, e Calenda e Renzi dall’altra, sono già pronti a sfruttare l’occasione.

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