Ferdinando Adornato
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​L'analisi / L’esame di Giorgia e la demonizzazione come arma politica

di Ferdinando Adornato
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Venerdì 5 Agosto 2022, 00:43

Per Giorgia Meloni è cominciata la notte prima degli esami. E, visti i sondaggi, la leader di Fratelli d’Italia come nuova premier. Ma la commissione d’esame degli italiani, che si riunirà il 25 settembre, rischia di non poter esercitare con rigore e imparzialità il suo compito se prevalesse la tentazione ideologica di bocciarla in anticipo.
Ed è proprio a questo che mira una campagna contro la cosiddetta “destra pericolosa”, con tanto di rievocazione del fantasma dell’eterno ritorno del fascismo.

Si tratta di una stucchevole “guerra preventiva” condotta da alcuni settori della sinistra. Ad essi andrebbe perciò rivolta una semplice domanda: quale destra non sarebbe considerata pericolosa per la democrazia? Berlusconi, si sa, era l’icona stessa del pericolo. E contro di lui si mosse una lunga guerra civile ideologica. Oggi però, ironia della storia, è considerato dalla stessa sinistra un affabile moderato rispetto a un Salvini che lo aveva nel frattempo rimpiazzato come pericolo pubblico numero uno. Entrambi, adesso, sembrano essere stati scavalcati in questa classifica dell’odio da Giorgia Meloni. Evidentemente la demonizzazione dell’avversario segue il ritmo dei sondaggi. E, soprattutto, prescinde dalla qualità dei programmi di governo.


Dall’altra parte ci si potrebbe obiettare: che ci possiamo fare se l’Italia, Paese sfortunato, propone sempre destre inadeguate? Allarghiamo allora il campo dell’indagine: quale modello europeo o internazionale di destra andrebbe bene? Il modello Thatcher? Macchè, la lady di ferro era un’autoritaria rappresentante del liberismo selvaggio. Il modello Reagan? Neanche a parlarne: la sua presidenza, (nonostante sia considerata dagli storici una delle migliori) fu oggetto, da noi, di un vero e proprio linciaggio culturale. Il modello gollista? A parte l’antica esecrazione della figura del fondatore, anche ai suoi eredi, tipo Chirac, o ancora dopo Sarkozy, non è toccata sorte migliore.

Così come allo spagnolo Aznar, considerato un sodale guerrafondaio di George W. Bush. Resterebbero, forse, come modelli potabili per la sinistra italiana, quelli di Helmut Kohl e Angela Merkel. Ma è legittimo il sospetto che, se fossero stati italiani, sarebbero stati comunque osteggiati come portatori di un’inaccettabile continuità del potere democristiano. Se non è zuppa è pan bagnato. Il fatto è che una parte (marginale?) della sinistra sembra affetta da una sorta di sindrome del “pensiero innocente”, per cui una volta stabilito per assioma che i propri valori rappresentino “il bene”, ogni avversario (liberale, gollista o conservatore che sia) non può che diventare un pericolo: per il semplice fatto di contrapporsi al bene. Quanti danni abbia causato alla sinistra questa concezione manichea della politica e della vita è ben noto.

Si ricordi come l’esorcismo contro la destra sia arrivato a colpire esponenti stessi della sinistra, marchiati a vita dall’anatema del “tradimento” e del “revisionismo”.

Non c’è bisogno di rileggere le tragiche pagine di storia del Novecento: si tratta di una “caccia alle streghe” che purtroppo ha continuato a imperversare fino ad oggi. Non certo per Letta: ma per quanti dirigenti e militanti della sinistra, ad esempio, persino Renzi, e anche Calenda, risultano indigesti proprio perché considerati “di destra”? E se, obtorto collo, si è costretti a un’alleanza con loro è solo per convenienza tattica: per battere destre ancora più pericolose. Nonostante i grandi passi avanti fatti dalla sinistra italiana questa perversa dialettica amico-nemico non è mai stata abbandonata. E in campagna elettorale raggiunge il suo culmine.


E’ chiaro che, proseguendo su questa strada, il recente appello di oltre cento accademici per un confronto segnato dal «reciproco rispetto» e «contro le campagne denigratorie che hanno contraddistinto questa prima fase della campagna elettorale» è destinato a cadere nel vuoto. Appello, si badi, meritoriamente firmato anche da storici rappresentanti della sinistra come Violante e Bassanini. L’ideale sarebbe che, da qui a fine settembre, tali prese di posizione si moltiplicassero. Naturalmente, però, anche la leader di FdI può e deve fare la sua parte per sminare il terreno dello scontro. Soprattutto in tre direzioni.

La prima è quella di insistere nel ribadire la scelta di campo in favore dell’atlantismo e dell’europeismo. Da questo punto di vista è da giudicare assai rilevante il “patto dalla parte dell’Ucraina” fatto sottoscrivere ai propri alleati. E sarebbe altrettanto importante sottolineare come la giusta battaglia contro le burocrazie europee non significhi in alcun modo negare che l’Italia e l’Europa facciano parte di una stessa comunità di destino. La seconda è prepararsi a essere lei la prima, se le capitasse davvero di governare, a rompere ogni schema di contrapposizione ideologica. Non solo garantendo la continuità operativa dell’esecutivo sul Piano di ripresa, sulle grandi riforme economiche e sociali, sulla lotta al cambiamento climatico.

Ma anche sapendo che dovrà essere in grado (davvero da patriota) di rappresentare, sia pure nella distinzione dei ruoli, lo spirito di unità nazionale di cui l’Italia continua ad avere bisogno in un momento così delicato. Del resto, in ogni democrazia chi governa lo fa anche per coloro che non l’hanno votato. Il che vuol dire cercare in Parlamento convergenze che vadano anche al di là della propria coalizione. Il suo sacrosanto progetto di semi presidenzialismo, se non vorrà restare una pura bandierina, dovrà giocoforza trovare intese trasversali. La terza, infine, è quella di essere consapevole che la promozione delle competenze è il principale asset da seguire, in un quadro segnato dalla mediocrità della politica e dalla decadenza culturale. In definitiva, dovrà riuscire nel non facile compito di creare una nuova classe dirigente.
 

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