Alessandro Campi
Alessandro Campi

Non solo Puglia/ La politica nazionale ostaggio dei localismi

di Alessandro Campi
5 Minuti di Lettura
Lunedì 8 Aprile 2024, 00:09

Il fenomeno era in atto da tempo, da almeno una decina d’anni a voler essere ottimisti. Le inchieste pugliesi delle ultime settimane l’hanno reso evidente, mostrando come si tratti d’una dinamica politica ormai radicata e diffusa, destinata probabilmente ad accentuarsi. Non si tratta, banalmente, dell’intreccio tra politica e affari o tra governo e denaro, del clientelismo o del voto di scambio, questioni che rimontano alla notte dei tempi e sulle quale non vale sprecare toni d’allarme moralistici, ma del trionfo del localismo-particolarismo politico.
O, detto diversamente, della crisi radicale, forse della fine, di quella che, semplificando, potremmo definire la politica nazionale. Quella un tempo decisa centralmente dai vertici dei partiti e valevole come linea o strategia unitaria sull’intero territorio della Penisola. Oggi funziona la politica spezzatino o fai da te. Quella decisa sotto l’ombrello nominale dei partiti, ridotti quando va bene a mere sigle o contenitori, da chi, in questa o quella porzione d’Italia, comune, provincia o regione, ritiene di avere interamente nelle sue mani le leve del consenso. E si comporta, di conseguenza, in modo autonomo e sovrano, senza rispondere a nessuno, nemmeno al suo segretario nazionale, delle scelte amministrative che opera, delle alleanze politiche che stringe e delle strategie che mette in atto. Sembrerebbe, messa così, un virtuoso abbozzo di politica federalistica, da alcuni auspicata come superamento di un modello statal-centralistico obsoleto, ovvero di una forma di sano autonomismo che si trova sancito, non a caso, nella Costituzione a tutela delle tante specificità territoriali che storicamente caratterizzano l’Italia.

In realtà, si tratta di una forma di crescente anarchismo politico – una sorta di ognuno per sé localistico che per definizione inclina verso la frammentazione istituzionale – che strada facendo si è saldato sempre più con forme di gestione del potere sui territori segnate da un personalismo di stampo pseudo-carismatico, da forme di affiliazione politica prive di ancoraggi ideologico-valoriali, da modalità di selezione del personale politico basate sul carrierismo e da pratiche clientelari quando non meramente affaristiche. Un quadro, quello appena riassunto già biasimevole e desolante, senza che per forza si debba adombrare lo spettro del malaffare e delle infiltrazioni criminali. Detto in altre parole, ci sono partiti organizzati su base nazionale che, anche quando hanno una connotazione fortemente accentrata, semplicemente non riescono più ad aver un controllo pieno sulle loro periferie o articolazioni territoriali. Non riescono cioè a imporre la propria linea di condotta ai loro stessi affiliati o rappresentanti sul territorio.

Ciò significa che per mostrare una forza di indirizzo che in realtà hanno perduto, sono costretti a continui patteggiamenti con quelli che non sono più, genericamente, potentati locali a loro modo integrati in una struttura organizzativa unitaria e in un progetto politico condiviso, ma ormai dei veri e propri potenziali contro-poteri interni, che sempre più tendono ad agire con assoluta indipendenza dai rispettivi vertici. Intendiamoci, i capi-corrente, i ras sul territorio, i signori delle tessere, i boss locali c’erano anche nel passato, all’epoca dei grandi partiti di massa, dove riuscivano a farsi sentire in termini d’influenza. Ma il loro potere come singoli, per quanto grande in questo o quel territorio, non bastava a mettere in discussione l’indirizzo unitario o la compattezza dei partiti di appartenenza.

Agiva da collante, al di là dei personalismi e delle reti di interessi di cui si era garanti o espressione, la cultura politica o ideologica nella quale tutt’insieme ci si riconosceva. Senza contare il carattere graniticamente gerarchico, in termini organizzativi e di capacità di controllo dal centro, che questi partiti possedevano.
E’ evidente che ci troviamo, ormai da tempo, in una stagione politica del tutto differente.

Le modalità di selezione elettorale diretta di sindaci e presidenti di regione hanno sicuramente contribuito, anno dopo anno, a dare a questi ultimi una legittimazione popolare e dunque una forza politico-negoziale che in passato essi non avevano avuto, sino a trasformarli in alcuni casi in veri capi-partito. Ma non si tratta solo di questo. Nel frattempo sono andati a maturazione altri processi convergenti: la progressiva disarticolazione, in termini gestionali e funzionali, dei partiti politici tradizionali; la scomparsa o trasmutazione delle culture politiche che ne costituivano l’ossatura ideale e, per certi versi, la ragion d’essere storica; la personalizzazione della politica favorita dalle nuove tecniche della comunicazione; la perdita di autorità anche in termini simbolici, delle istituzioni statali e dei centri di potere nazionali; la tendenza degli stessi elettori a scegliere i propri rappresentanti secondo criteri di mero interesse soggettivo o di tornaconto materiale.

Ciò significa che la politica territoriale 0 dal basso, quella dei partiti ma anche quella che in questi anni si è andata ammantando retoricamente delle virtù del civismo in chiave anti-politica, è ormai, ad osservarla con attenzione, quasi soltanto aggregazione di energie su una base di fedeltà personal-amicale o clanico-familistica; è mediazione tra interessi secondo criteri di convenienza e di forza; è puro trasversalismo affaristico o mimetismo ideologico (qualcosa di diverso dal tradizionale trasformismo). E’, infine, affarismo a danno delle casse pubbliche spacciato demagogicamente per difesa del territorio e per legittimo orgoglio campanilistico.
La lezione generale che viene dalla Puglia, se ci si astrae dalla cronaca giudiziaria e dalle polemiche contingenti fra forze politiche in vista delle prossime consultazioni amministrative, è esattamente questa: la forza crescente dei potentati territoriali a danno del centro.

A farne le spese, in questo momento e in quel contesto, è soprattutto il Partito democratico, il che – per molti versi – è un anche un divertente paradosso, visto che parliamo degli epigoni di una tradizione segnata dal centralismo democratico e da visione assai gerarchico-autoritativa dei rapporti interni al partito. Ma si tratta, come detto, di un problema ormai strutturale e non facilmente reversibile, che in prospettiva rischia di toccare, anche se in forme diverse tutti le forze politiche, fino ad alterare per alterare il funzionamento dell’intero sistema politico. Un problema che oltre al Sud – dove la politica notabilare basata sul personalismo esasperato, sulle clientele e sulla manipolazione del consenso rappresenta una tentazione antica – tocca, come dimostrato da alcuni recenti episodi di cronaca, anche il Nord, rendendo per l’appunto sempre più impossibile una politica nazionale o generale, che non si limiti al soddisfacimento degli interessi particolaristici dei singoli territori e dei loro più o meni carismatici rappresentanti. Tanto ambiziosi sul piano personale quanto sempre più politicamente fuori controllo e dunque pericolosamente imprevedibili.

© RIPRODUZIONE RISERVATA