Paolo Balduzzi
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Il voto al Senato/ I diciottenni alle urne: molti pregi, qualche neo

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 16 Luglio 2021, 00:10

È una piccola rivoluzione costituzionale quella che, poco a poco, sta realizzando la XVIII legislatura. Prima il taglio dei parlamentari che, piaccia o meno, è stata la prima riforma costituzionale confermata da un referendum popolare dopo quella del 2001. Ora l’abbassamento dell’età dell’elettorato attivo al Senato a 18 anni (più precisamente, la maggiore età).

Si tratta di una misura dal forte valore simbolico - ci si augura anche sostanziale - con numerosi effetti positivi ma anche, e vale la pena di parlarne, negativi. Cominciamo con quelli positivi. L’allargamento del diritto elettorale è sempre un’ottima notizia per la democrazia. Nel giro di poco più di un secolo hanno guadagnato il diritto di voto tutti gli uomini con età maggiore dei 21 anni, senza distinzione di reddito o ceto sociale (1918), le donne (1945), e infine i diciottenni, limitatamente alla possibilità di eleggere i membri della Camera dei deputati (1975). 

Ha resistito invece fino al 2021 questa bizzarria costituzionale per cui i maggiorenni potevano eleggere qualunque carica (sindaci, presidenti di Regione, deputati ed eurodeputati) ma non, appunto, un senatore. È una bellissima notizia anche perché, oltretutto, va nella direzione di tutelare una minoranza, cioè le persone più giovani. 

La popolazione compresa tra i 18 e i 24 anni, cioè coloro che sono stati ammessi al voto con la riforma costituzionale approvata, è scesa negli ultimi vent’anni di oltre il 10% (oltre 400 mila unità). Gli under 40, per avere una visione più generale del fenomeno, sono invece calati dal 2002 di oltre il 15%: quasi 5 milioni di giovani, una città più grande della Capitale, che o non sono mai nati o hanno deciso di emigrare nel corso della loro vita. 

In un Paese che invecchia e che, di conseguenza, abbassa ulteriormente l’orizzonte temporale già breve della politica, questa misura potrebbe riequilibrare almeno parzialmente la distribuzione di potere tra elettori più anziani ed elettori più giovani, sensibilizzando il legislatore verso questi ultimi. Certo, non è la panacea di ogni male. E spesso un diritto formale non garantisce un diritto sostanziale. Pensiamo infatti alla popolazione femminile: pur avendo diritto di voto da oltre 70 anni, la politica è sempre rimasta in mani prevalentemente maschili. E le donne costituiscono comunque la maggioranza della popolazione. A differenza invece dei giovani che, oltre ad essere sotto-rappresentati, non hanno nemmeno una massa sufficiente per farsi sentire. 

In attesa di politiche più efficaci per aumentarne il numero, come per esempio l’Assegno unico per le famiglie se davvero sarà universale e sostanziale, non resta che allargare le maglie di elettorato attivo e passivo. Solo buone notizie, quindi? Non proprio. È evidente che in un contesto di bicameralismo già cosiddetto perfetto, in cui Camera e Senato hanno esattamente le stesse funzioni, le soglie di elettorato attivo e passivo sono sempre state il principale elemento di differenziazione delle due camere. Rimuovere parzialmente questa differenza aumenta quindi la sovrapposizione della rappresentatività e, in termini economici, riduce notevolmente l’efficienza delle istituzioni. Ce lo potevamo aspettare, del resto. 
Dai tempi del cosiddetto teorema dell’impossibilità di Kenneth Arrow, premio Nobel per l’economia nel 1972, sappiamo che nessun meccanismo di aggregazione delle preferenze individuali è privo di difetti.

Ma oggi aumentare il grado di democrazia nel Paese, soprattutto perché questo aumento va a beneficio dei più giovani, è ben più importante di qualunque altro effetto negativo. Lo deve tenere ben presente il corpo elettorale, qualora venisse convocato un referendum (non obbligatorio) per confermare la riforma costituzionale. Ma lo deve tenere ben presente anche il legislatore, perché questo nuovo bicameralismo “più che perfetto” possa restare solo un breve incidente di percorso e non sedimentare come nuovo elemento istituzionale italiano. 

Ancora molto c’è da fare per migliorare la nostra Costituzione, proprio a partire dal Senato. Cosa ne vogliamo fare di questa assemblea? Tenerla come è ha sempre meno senso. Una possibilità è quella di dedicare il Senato alla valutazione delle politiche pubbliche, ruolo di grande prestigio e, in questo periodo, anche di grande responsabilità. Un’altra possibilità è quella di farla diventare davvero un’Assemblea di rappresentanza di Regioni ed enti locali, come avrebbe voluto anche qualche costituente nel lontano 1948. 

O, infine, perché no, la possibilità più drastica, vale a dire quella di rinunciarvi definitivamente, magari trasferendo i suoi membri alla Camera. E per migliorare la costituzione non deve fermarsi qui nemmeno l’attività di allargamento delle concessioni elettorali. L’attenzione di diversi leader di partito e anche dell’opinione pubblica è per esempio oggi molto elevata rispetto al voto dei sedicenni: uno degli ultimi tabù che questa legislatura, con un po’ di coraggio, potrebbe far cadere entro il 2023.
 

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