Paolo Pombeni
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Toghe e potere/La riforma “culturale” e il ruolo dei giudici

Toghe e potere/La riforma “culturale” e il ruolo dei giudici
di Paolo Pombeni
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Sabato 10 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 22:13

La riforma della giustizia non è solo una questione di leggi e regolamenti: coinvolge la “cultura del diritto” e la percezione dell’etica professionale dei soggetti che la gestiscono, magistrati e avvocati. La constatazione, che sarebbe bene non considerare banale, è stata sollevata da varie parti in questi giorni in cui ci si confronta con gli sforzi riformatori della ministra Cartabia, notando che non ci saranno svolte se non cambieranno certi modi di intendere da parte degli operatori del diritto.


Il tema merita considerazione, senza buttarsi a pontificare sulle opposte fazioni dei giustizialisti e dei buonisti sociologizzanti. In realtà che i giudici esprimano delle tendenze che derivano dalla opinione pubblica a cui fanno riferimento, è una storia vecchia. Un tempo, neppure troppo lontano, i giudici apparivano come i difensori dello status quo e della morale bacchettona: qualcuno ricorda il caso del giornaletto del liceo Parini di Milano “La Zanzara”, con le ragazze sottoposte a trattamenti umilianti da un giudice milanese per una inchiesta sulla sessualità dei ragazzi? Poi i tempi sono cambiati, ma ci si è semplicemente buttati sul fronte opposto.

Di episodi se ne potrebbero citare tanti e forse non dimostrano nulla più che l’adeguarsi della magistratura a quello che si definiva il “comune sentimento” e che era poi sempre quello di una parte ritenuta rappresentativa della buona società.
Oggi, in tempi di turbolenza circa le definizioni del sentire comune, che non si dovrebbe ridurre a ciò che domina nella comunicazione spettacolizzata, sarebbe meglio concentrarsi sul cercare di sciogliere il nodo di quella che si ritiene debba essere la funzione della magistratura. Senza una consonanza di idee su questo tema non solo sarà difficile orientare e far accettare le riforme, a partire da quella essenziale del Csm che deve pur sapere a cosa serve oltre che a decidere le carriere, ma diventerà un’impresa creare quel clima che orienta tutti i magistrati a dare sangue e carne alle riforme.


Ci pare centrale far superare l’idea che il compito della magistratura sia quello di “raddrizzare” la società. La tentazione anche in questo caso è antica, arriva ben prima della fiammata di Mani Pulite con quel che ne è seguito. L’opinione pubblica insoddisfatta, quando non esasperata per una organizzazione sociale in cui non regna alcun tipo di ordine che consenta una convivenza con eguali o almeno non troppo diverse opportunità per tutti, si rivolge al giudice perché scovi e punisca chi è la causa di questa situazione.
E’ banale rilevare che ciò esalta il ruolo del giudice, ne fa un dio minore che rimette in sesto il mondo (o si illude di farlo) e per questo riceve attenzione e considerazione.

Se sbaglia, può sempre cavarsela col dire che non poteva far altro che provarci coi danni collaterali connessi, fiducioso che troverà comprensione (il che spesso accade, salvo casi eclatanti).


In realtà il compito della magistratura, “potere neutro” secondo la definizione del costituzionalismo classico, non è mettere in riga il mondo, ma contribuire, nelle inevitabili tensioni che si generano in ogni contesto sociale, a mantenerne l’equilibrio dirimendone i conflitti e arginandone le tensioni. La magistratura non deve considerarsi un potere a sé stante, ma una articolazione del potere generale dello Stato, che sullo stesso piano genera altri poteri, ciascuno con il compito di evitare che uno di essi diventi un potere assoluto, cioè scisso dagli altri.


Sono elementari considerazioni di storia costituzionale, che però varrebbe la pena fossero ripassate per consentire il recupero di quella interazione in sinergia di tutte le forze che muovono un sistema sociale. Ci sta dentro, ovviamente, anche la repressione della devianza, ma va intesa come una articolazione del compito di tutelare e produrre l’equilibrio sociale che vuole le tensioni ridotte al minimo. 
Una vera Riforma, in primis culturale, che muovesse dalla ricerca e promozione di questi equilibri esalterebbe anche il ruolo della magistratura senza farne un corpo separato, inevitabilmente soggetto quanto meno alla tentazione dell’autoreferenzialità.

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