Anna Coliva

Il ruolo del Mibact/Se la burocrazia diventa ostacolo dell’innovazione

Il ruolo del Mibact/Se la burocrazia diventa ostacolo dell’innovazione
di Anna Coliva
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Sabato 10 Luglio 2021, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 22:13

L’Italia e il suo governo sono impegnati in un enorme sforzo per una ripartenza che non può prescindere dalle riforme essenziali per sanare ritardi endemici del Paese. Dovrà essere un nuovo corso, capace di eliminare le distorsioni ataviche.


Tra i temi chiave vi è la transizione energetica e il suo grave ritardo strutturale causati dagli equivoci in cui sinora si è incappati. Ma quando nel governo il lavoro di snellimento delle procedure era giunto all’ultimo miglio decisionale, il Ministero dei Beni Culturali ha opposto l’articolo 9 della costituzione come agente di resistenza e reazione. Quell’articolo 9 che noi - che abbiamo voluto caparbiamente far parte di quel ministero super tecnico della conservazione del patrimonio culturale, che abbiamo fatto a tempo a vivere l’eccitazione di trovarci a praticare la nostra disciplina, la storia dell’arte, non semplicemente in un’università ma in una struttura amministrativa che la disciplina l’aveva incarnata; noi che su quell’articolo abbiamo giurato - consideriamo sacrosanto. 


Ma l’articolo 9 dice anche che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. Sono estremi legittimi e ben noti ed è grave che si sia ancora a preliminari che dovevano essere affrontati e risolti in questi anni, sin da quando emersero le modalità tecniche scelte dall’Italia per la transizione energetica. Poiché è noto che queste scelte non sono le più avanzate e le più adatte alla salvaguardia del paesaggio e molti altri Paesi provano che c’è di meglio delle pale eoliche o dei pannelli solari cinesi, proprio in nome del famoso articolo 9 ci si sarebbe dovuti premunire. Per esempio il Ministero avrebbe dovuto affiancare agli specialisti nella ricerca energetica più avanzata gli specialisti della tutela - architetti, archeologi, storici dell’arte - impegnandoli in ricerche avanzate e interdisciplinari con l’obiettivo di comporre tutela e sviluppo.

Risolvere questo problema sarebbe stata una straordinaria opportunità per riportare all’interno dei Beni Culturali la ricerca attiva, in grado di restituire a questo ministero le ragioni della sua stessa esistenza piuttosto che la corsa all’intrattenimento con notti dei musei, sagre del Patrimonio e del fumetto, rincorse sui social con recite zelanti da scheda di catalogo da secolo XX che non riescono a far combaciare il mezzo con il messaggio. E così, quando l’urgenza di ripresa e sviluppo prodotta dalla drammatica interruzione di un anno e più ha mandato in allarme la cultura della conservazione del patrimonio storico, artistico e naturale, ci si è accorti che nulla era stato predisposto. È riemerso così il solito conflitto italiano tra progresso e conservazione, una contrapposizione radicatasi come un’autentica tradizione locale, sempre uguale, almeno dalla fine degli anni ‘70, quando si esaurì quella particolarissima eccezionalità semantica per cui la conservazione, quando applicata al patrimonio culturale, era una cultura progressista: o professata tale. Da quarant’anni invece sono antagoniste, senza alcun imbarazzo per il loro automatismo, come se il tempo non passasse e circostanze e contenuti non evolvessero. Così la conservazione, anche quella del patrimonio culturale, è tornata a tararsi sul significato letterale di reazione. Con tanto di militanza, come fosse un eroismo.


Ora, dopo l’inerzia di decenni si dovrebbero mettere come impegno prioritario tre assiomi: le ragioni dello sviluppo non possono essere ignorate da nessuno; la compatibilità tra sviluppo industriale e conservazione dei beni naturali e artistici va garantita; va raggiunto un progresso congiunto, risultato di ricerca costante per un tipo di sviluppo, un’economia e di conseguenza un’attività imprenditoriale, tanto pubblica che privata, dai modi specifici, tarati sulle peculiarità del nostro paese. Di chi sarà la colpa se il problema non è stato riconosciuto? Le colpe, si sa, sono sempre complesse, reciproche e interconnesse e vanno diagnosticate. E allora è evidente che le responsabilità schiaccianti sono quelle della cultura e dei suoi orientamenti, sia di ricerca che di formazione.

Cosa hanno fatto per decenni le facoltà umanistiche, cosa sono andate a insegnare di così prioritariamente astratto e teorico da essere più importante che agganciare il mondo dello sviluppo, tanto tecnologico che economico, per obbligarli a una comune ricerca di applicazione di metodi e interessi alla peculiarità italiana? Che importanza hanno le storiografie della tutela, le sue teorie, lo studio astratto e settoriale dei beni culturali, se separati dalla concretezza della loro applicazione? Se impermeabili, isolate dalla loro immersione nei mondi della produzione e dello sviluppo, dal confronto con le loro ragioni? Quale etica disciplinare può giustificare che una cultura nella sua purezza non debba sentirsi responsabile della soluzione dei problemi della realtà nella loro evoluzione? Non si tratta mica della realtà in senso metafisico, ma di quella concreta del nostro paese, nello scorrere del nostro tempo storico.

Tutto astratto nell’Italia post bellica: l’urbanistica è una scienza mai applicata; l’architettura è un’ipotesi sommersa da ostacoli procedurali e l’edilizia va altrove, senza bisogno di architettura; le storiografie, neanche a parlarne. I conati applicativi: sforzi astratti e autoreferenziali pure quelli.

“Sviluppo sostenibile” è solo un modo di dire, non supportato da ricerche congiunte intersettoriali. Con tutto il rispetto per la tutela del narcisismo dei rappresentanti di quella che genericamente si chiama cultura - e ci si intende - si dovrà pure ammettere che avrebbero potuto coltivare il loro legittimo autocompiacimento senza porre come sacrale l’automatismo inibente di civiltà (la loro) contro la barbarie (dello sviluppo, sia tecnologico che del profitto economico). E quel Ministero della conservazione del patrimonio culturale che fu fondato utopisticamente come struttura tecnica, come ha potuto, dal 1975 a oggi, non affrontare ciò che è noto da decenni? Che quelle dello sviluppo del paese sono le sue stesse ragioni. E invece la difesa passiva e automatica, la creazione di argini, la perimetrazione geografica, sono il metodo migliore per l’autoesclusione, a lungo andare, delle proprie stesse ragioni. Magari con una patina di integrità e onore, simili a una vecchia decorazione ma che produce una marginalizzazione assai più grave e colpevole del piacere della testimonianza. La nobiltà di scienza non dovrebbe ritardare un progresso necessario. 


Se la nostra industria, se i nostri modelli di energia sono ancora del tipo distruttivo di un suolo nazionale dalle arcinote peculiarità di concentrazione geografica e fragilità territoriale, sarà pure un segno degli effetti deleteri di un’insufficienza culturale, per non avere posto per tempo il problema in termini imprescindibili di ricerca, ma solo in quelli parziali e semplicistici di resistenza settoriale e testimonianza astratta. Ora, invece di rafforzare le strutture istituzionali della tutela con un’aggiornata innovazione scientifica, si è preferito aggravare i ritardi con la solita risposta emergenziale del sovra-ente speciale destinato a divenire, come per i terremoti, eterno e irresoluto.
È evidente, almeno dagli anni ‘80 del secolo XX, che non c’è molto da inventare di nuovo per nessuna scienza e professione tradizionale se non trasformare i metodi, superare la contrapposizione tra scienze umanistiche, tecnologiche, economiche in una nuova scienza in confronto strutturale con ambiti scientifici che per secoli sono stati mantenuti in categorie separate. Le civiltà più avanzate del mondo odierno hanno capito subito come le categorie della modernità fossero superate dalla fase epocale della postmodernità: quanto necessario al mondo nuovo non lo scopre nessuna professione tradizionale da sola.


Nello specifico, forse marginale, dei beni culturali, tali pregiudizi per decenni, con la forza inconsapevole dell’apparato, hanno costantemente impallinato i rari tecnici della cultura che avessero percepito l’esigenza e tentato un’innovazione dei modi consueti e convenzionali con un’arma cieca ma così efficace da essere divenuta un’entità mitica: che si può anche continuare a chiamare burocrazia ma non è che la difesa estrema del costituito, del convenzionale e del garantito divenendo ostacolo a volte violento, quanto più consistente è la portata dell’innovazione. 

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