Andrea Margelletti

Ma il terrore non fermerà il dialogo con i talebani

Ma il terrore non fermerà il dialogo con i talebani
di Andrea Margelletti
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Venerdì 27 Agosto 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 28 Agosto, 00:04

Due shaheed, un attacco coordinato. Due esplosioni, una vicina all’Abbey Gate dell’aeroporto di Kabul, nel cuore delle operazioni di evacuazione del personale militare statunitense e della popolazione desiderosa di lasciare l’Afghanistan. L’altra poco distante, nei pressi di un hotel utilizzato anche come appoggio dai tanti giornalisti internazionali accorsi nel Paese per raccontare il drammatico epilogo di vent’anni di guerra. Il numero delle vittime, per pudore e rispetto, è meglio non menzionarlo. Isis-k nel Khorasan non poteva sperare in un’occasione più propizia per dare inizio ad una nuova pagina della lotta contro i Talebani, soprattutto ora che si presentano come il governo legittimo del Paese. Le centinaia di telecamere dei media internazionali sono state il palcoscenico scelto da Isis per mettere in imbarazzo i Talebani sotto gli occhi attenti della Comunità Internazionale.


La lotta tra i due gruppi non è certo una novità. Nata da una costola secessionista della militanza pakistana ripiegata nelle province orientali dell’Afghanistan dal 2014, la branca locale di Isis ha sempre rappresentato un problema per il movimento talebano. Dopo anni trascorsi a combattere per aggiudicarsi il controllo del territorio, i Talebani non potevano certamente accettare una simile concorrenza interna. Al di là delle sporadiche, seppur significative, occasioni di collaborazione, facilitate più dalla presenza in entrambi i gruppi di militanti stranieri che da un’effettiva convergenza di interessi, Talebani e Isis-k sono quindi sempre stati antagonisti. Uno scontro di interessi concreti che si sostanzia di una differenza ideologica: il deobandismo dei Talebani, infatti, non è il wahabismo dei seguaci di Isis. Sebbene entrambi affondino le proprie radici in un’interpretazione radicale della legge islamica, il deobandismo non può essere annoverato come forma di salafismo, in quanto apre alla possibilità di applicare la Sharia seguendo anche gli insegnamenti di un guida (per i Talebani, il proprio Emiro) e risente dell’influenza storica e culturale del subcontinente indiano. Nel caso del deobandismo talebano, poi, i precetti religiosi si uniscono al codice etico tribale del Pashtunwali.


L’interesse di combattere il jihad in Afghanistan per scacciare gli stranieri e ripristinare l’Emirato Islamico, proprio dei Talebani, mal si concilia con le aspirazioni internazionali di un Califfato che dovrebbe avere la propria capitale in territorio mediorientale. I Talebani non hanno mai voluto governare una provincia, ma uno Stato.
L’opposizione tra i due gruppi è così radicale che persino l’Occidente ha intestato ai Talebani il compito di tenere a bada la minaccia jihadista di Isis-K, in cambio di poter levare le tende finalmente da quel pantano che era diventata la guerra in Afghanistan.

A Doha, l’accordo tra Stati Uniti e Talebani è stato il sugello di questo patto. I Talebani stanno costruendo la propria credibilità internazionale sulla promessa di saper garantire la sicurezza all’interno del Paese. Isis-K ha tutto l’interesse a dimostrare che, in realtà, così non è. La presenza del gruppo in Afghanistan è tutto sommato residuale: poche sacche ancora rimaste nell’est e alcune cellule operative a Kabul. Sufficiente, però, per sfruttare il momento di confusione e incertezza e mettere a segno un attentato dal forte valore simbolico e mediatico.


Ora che i Talebani si apprestano a formare il nuovo governo, lo scontro tra i due gruppi non è più di controllo operativo del territorio, ma di modello statuale proposto: Emirato Islamico contro Califfato. Bandiere bianche contro bandiere nere. Due idee di Stato contrapposte. Ma si sa, c’è sempre posto per uno solo.


L’attentato ha un significato tutto interno al mondo islamico e non pregiudica di certo il dialogo tra Stati Uniti e Talebani, anzi. Questa settimana il direttore della Cia, William J. Burns, ha incontrato il mullah Baradar a Doha, testimonianza di quanto intenso sia in questo momento l’interesse a mantenere aperto uno scambio che renda effettivamente sostenibile la scelta di ritirare le truppe dall’Afghanistan. E’ interesse comune per Washington tanto quanto per i Talebani, che sembrano così alla fine aver trovato almeno un punto su cui concordare: il nemico del mio nemico è, per quanto scomodo, mio amico.

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