Mafia viterbese, gli imprenditori «complici e coscienti»

Un attentato incendiario
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Venerdì 29 Marzo 2024, 05:20 - Ultimo aggiornamento: 19:44

Complici e coscienti. Nelle ottanta pagine di motivazioni della sentenza del collegio del Tribunale di Viterbo, che ha condannato per estorsione mafiosa i due imprenditori viterbesi Manuel Pecci ed Emanuele Erasmi, ricorrono spesso alcuni precise parole. Gli imputati vengono definiti come assolutamente consapevoli di cosa stavano facendo e di chi avevano di fronte. 

I FATTI
Il processo agli imprenditori viterbesi Emanuele Erasmi e Manuel Pecci e al tuttofare romeno Pavel Ionel, accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso si è concluso a dicembre scorso. Il collegio ha condannato Pecci a 4 anni e 8 mesi di reclusione, quattro anni invece a Erasmi e tre a Pavel Ionel. Il processo è una costola del più famoso “mafia viterbese” concluso con condanne definitive per tutti i membri del sodalizio capeggiato da Ismail Rebeshi e Giuseppe Trovato. I tre imputati del processo costola, finiti agli arresti durante il blitz del gennaio 2019 in cui il Nucleo investigativo dei carabinieri di Viterbo disarticolò la banda, oltre a non essere considerati membri attivi del sodalizio furono gli unici tre che scelsero di chiudere i conti con la giustizia con il rito ordinario. 

MANUEL PECCI
Manuel Pecci, imprenditore viterbese nel settore dell’estetica aveva chiesto l’aiuto di Giuseppe Trovato per risolvere un “contenzioso” con un cliente rimasto danneggiato nel suo centro estetico e che avrebbe voluto un risarcimento. «Il Collegio- si legge nelle motivazioni - ritiene che la teoria sostenuta dalla difesa, della diretta e spontanea intromissione di Giuseppe Trovato negli affari di Manuel Pecci sia non condivisibile. L’ipotesi è non credibile e lontana dalla logica e dalla ragionevolezza». L’analisi delle intercettazioni, la lettura del testo e l’ascolto dei supporti restituiscono un’interpretazione diversa. Anzi, «emerge una confidenza e una condivisione dello scopo del tutto incompatibili con la non pianificazione».

Per i giudici viterbesi è «chiaro ed evidente il prendere corpo e forma della predisposizione di un programma intimidatorio nei confronti della vittima e Pecci è colui il quale ha dato vita alla commissione del reato». Detto in altri termini Pecci nella complessiva vicenda è «cosciente e consapevole delle modalità di realizzazione delle condotte, poste in essere per soddisfare un suo interesse, da parte di un soggetto con il quale egli condivideva un pregresso rapporto di conoscenza e confidenza».

EMANUELE ERASMI
Emanuele Erasmi, piccolo imprenditore del settore edile di Bagnaia, si sarebbe rivolto alla banda per recuperare un credito che non riusciva a incassare. E sarebbe rimasto talmente contento del lavoro del sodalizio mafioso che si sarebbe anche offerto di parlare bene per trovare altri “bisognosi d’aiuto”. «Gli imputati hanno realizzato la loro pretesa estorsiva fondando la maggior parte dell’efficacia minatoria nella presenza silente e a tratti fintamente gentile degli estorsori incaricati da Erasmi di recuperare il suo credito.
La presenza inquietante non è stata imposta in un luogo qualsiasi: la mafiosità del metodo, già come accaduto nel caso di Pecci, si fonda molto sull’imposizione della presenza nei locali aziendali stante l’immediato e intuitivo collegamento tra la minaccia implicita e la sicurezza dei beni aziendali». 

PAVEL IONEL
Il romeno tuttofare amico del boss Rebeshi era stato accusato di furto, estorsione e danneggiamenti. Assolto dai primi due reati è stato condannato per l’attentato incendiario alla macchina di un carabiniere. «La condotta dimostra esprime inequivocabilmente la sussistenza del metodo mafioso: l’utilizzo dell’incendio come mezzo per il danneggiamento è proprio di sodalizi criminali di notevole efficacia dimostrativa» Per i giudici ogni altra ricostruzione non è possibile. 

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