La musica e lo show prima di tutto: i Subsonica e il loro megapalco

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Mentre a Sanremo andava in scena la finale del Festival, a oltre 600 chilometri di distanza, ad Ancona, i Subsonica salivano su un palco all'interno di un palazzetto per inaugurare il loro “8 tour”. E proprio mentre l'Italia intera già dibatteva forsennatamente sui social dopo la vittoria di Mahmood, una delle espressioni più esotiche della nuova ondata trap che ha colonizzato le classifiche, il gruppo torinese intratteneva il pubblico che la segue da 23 anni con quello che dal 1996 a oggi le riesce meglio: suonare dal vivo, alla faccia dei talent show che, dicono loro senza mezzi termini, sono già al tramonto. E continuerà a suonare dal vivo domani al Palalottomatica di Roma e poi a Firenze il 23. «È il nostro tour più ambizioso da un punto di vista scenografico», racconta Max Casacci, chitarrista e cofondatore dei Subsonica insieme a Samuel e Boosta, tutti e tre ospiti di Messaggero Tv, «vogliamo rendere immersivo il nostro concerto, creare l'ambiente ideale per la musica».

E come fate?
Max: «C'è un palco in perenne movimento, che cambierà architettura almeno sei o sette volte durante l'esibizione. Per allestirlo ci vogliono 58 persone, per uno show che si può fare solo dentro i palazzetti».

È per questo che il vostro “8 tour” non passa dal sud Italia?
Max: «Sì, ma ci rifaremo quest'estate. Il meridione ha delle location perfette all'aperto».

Non eravate preoccupati di suonare lo stesso giorno della finale di Sanremo? C'è Calcutta che a Roma ha organizzato addirittura due date nei primi due giorni della kermesse.
Max: «Nessuna preoccupazione. Il Festival non ha mai fatto concorrenza ai concerti».

Voi ci tornereste, a Sanremo?
Samuel: «Solo per presentarlo (ride). No, la partecipazione del 2000 ci è bastata. Ma lo seguiamo sempre con molta attenzione».

Che ne pensate dell'ondata trap che sembra aver travolto quel poco che restava del rock e del suo ruolo sociale?
Samuel: «Che il mondo si evolve e i linguaggi cambiano. La cosa fondamentale è che ci sia un linguaggio, indipendentemente dal fatto che venga utilizzato per dire cose importanti o meno. Ma il fatto che esista la voglia di aver qualcosa da dire è importante».

Max: «Noi negli Anni '90 ci sentivamo immersi in un mondo di appartenenza. Per questo ci mettevamo la faccia, prendendo parte ad alcune azioni collettive come suonare dove non si poteva e rischiando non solo di prendere delle denunce ma anche di risultare sgraditi a una parte del pubblico. Oggi si predilige una lettura più personale, ma non meno interessante o meno autentica di quella sociale. D'altronde è tutto individuale: basti pensare che torniamo a parlare di sovranità in un momento in cui è assurdo parlarne».

Quanto hanno influito i social network?
Samuel: «Parecchio. Quando i centri sociali erano luoghi d'aggregazione, i social non c'erano e non servivano nemmeno. Ora hanno soppiantato quel concetto di percorso collettivo».

E questo come ha cambiato il vostro lavoro? Com'è oggi il vostro rapporto con i fan?
Samuel: «Abbiamo un rapporto fisico con chi ci segue, i live restano centrali per noi. Ora c'è la necessità di avere una comunicazione continuativa con le persone, perciò devi dare ogni giorno un pezzo di ciò che sei e che fai. Ma il vero abbraccio con il nostro pubblico avverrà sempre ai concerti».

Però voi siete di un'altra generazione. Mentre chi entra oggi nel mondo della musica deve vedersela con i talent.
Max: «I talent non esistono più. Sono stati l'esempio di una stagione musicale che ha fatto a meno della musica. Dagli Anni 00 in poi la musica è scomparsa, e con lei gli spazi dedicati. L'apericena ha spostato l'attenzione: una volta se cercavi la socialità andavi dove si faceva musica, poi la musica è diventata sempre più un fenomeno di sottofondo. E i talent stessi non sono mai stati un fenomeno musicale, ma un fenomeno televisivo che utilizza la musica come linguaggio».

Ma da un punto di vista commerciale, è anche il mondo della musica a cavalcarli.
Max: «Sì, magari per far girare un singolo in radio dalla mattina alla sera e aiutare a vendere un disco. Ma questo meccanismo “brucia” un artista. Non è un caso che il nuovo fenomeno siano le etichette che stanno mettendo in piedi dei progetti di medio-lungo corso. La generazione che ha rivitalizzato la musica è nata lontano dai riflettori, utilizzando canali paralleli come YouTube: Calcutta, ma anche Bello Figo e la Dark Polo Gang sono riusciti così a catalizzare l'attenzione di milioni di ragazzi. Quindi perché passare dal mondo dei talent e delle radio, che sono rigidissimi?».

Ha ancora senso che un artista oggi parli di politica?
Max: «Quando suoni davanti a 15 mila persone, esprimere un proprio pensiero significa automaticamente inimicarti una parte di loro. Ma è un atto di coraggio necessario. Perché potrà risultare sgraziato o fuori luogo, ma è un principio sano che va mantenuto e non osteggiato».

Sono 23 anni che suonate insieme. Qual è il collante che vi ha tenuto uniti per tutto questo tempo?
Max: «Sapere di essere importanti per tante persone. E poi il palco. Negli anni abbiamo vissuto anche periodi di contrasti burrascosi, ma quella dei concerti è sempre rimasta una sorta di zona franca. Lì le energie si sono sempre allineate. Ed è per questo che siamo una band che in vent'anni ha mantenuto sempre la stessa formazione, il che è molto raro».

I progetti solisti hanno aiutato?
Samuel: «Sì. Quando fai parte di una reatà musicale come la nostra, senza un leader, è un continuo processo di comprensione reciproca. Noi abbiamo costruito questo meccanismo di autoanalisi e di sfogo della nostra creatività che rappresenta l'intercapedine dei lavori dei Subsonica. Ogni tanto ci concediamo degli spazi per poi tornare insieme più “puliti” dalle nostre esigenze».

Smetterete mai di fare questo lavoro?
Samuel: «Speriamo di no, non sapremmo cos'altro fare».

Andrea Andrei