Preparare oltre duemila pasti al giorno significa azionare una grande macchina organizzativa , avere consapevolezza della qualità delle materie prime, unita a alla gestione delle risorse umane – 55 addetti- essere in sintonia con dietiste e personale medico preposto ai controlli. «Lavorare in una cucina di un grande ospedale è faticoso e logorante, personalmente ho avvertito sulle mie spalle la responsabilità di dare un servizio gradito a pazienti e personale. Abbiamo ascoltato i consigli di tutti e posso dire che le lamentele con il tempo si sono rarefatte».
Carletti, come capita a molti chef, ha attraversato un periodo di salute difficile, con un sovrappeso preoccupante: «Ho dovuto fermarmi ed affrontare il problema con grande determinazione; ci sono riuscito ed ho così avuto la conferma di quanto sia vero il concetto che il cibo è terapia». Non solo un menù variegato, ma anche diete personalizzate per pazienti alle prese con patologie le più diverse: «A Monteluce negli anni ‘80 abbiamo proposto anche la trippa, un piatto che piaceva molto pazienti con patologie psichiatriche, oppure supplì e baccalà fritto. Ma con i nuovi criteri salutistici abbiamo puntato sempre più sulla dieta mediterranea, sempre rafforzando i controlli sui cibi e sulla sicurezza dei locali e degli addetti».
Quale è stata la soddisfazione più grande in tutti questi anni? «Aver visto crescere il gradimento degli utenti, in rapporto alla loro condizione di pazienti sottoposti a limitazioni in base alle loro patologie. A volte è capitata di ricevere qualche protesta per le porzioni contenute, ma sempre attraverso il personale. Con una eccezione. Pochi anni fa alzai io la cornetta del telefono, dall’altro capo l’attore Paolo Villaggio, che stava facendo una dieta ipocalorica. Mi disse con voce stizzita: Non ce la faccio più! Preparatemi un hamburger gigante! Lo accontentammo in parte, ma prima di servirgli quella pietanza mi ero fatto autorizzare dai medici che lo avevano in cura».
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