Paolo Calabresi: «Mia figlia è andata in Ungheria con i "miei" biglietti. Io devo lavorare sul set. Non è giusto»

L'attore: "Tiferò tra un ciak e l'altro"

Paolo Calabresi: «Mia figlia è andata in Ungheria con i "miei" biglietti. Io devo lavorare sul set. Non è giusto»
di Paolo Calabresi
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Martedì 30 Maggio 2023, 23:52

Non sarò a Budapest. Non è giusto. Avevo i biglietti ma non ci sarò. Il lavoro me lo impedisce, crudelmente e senza appello. Non è giusto, ma accetterò questo verdetto con compostezza, pari a quella del costume fine ottocento che dovrò indossare mentre le squadre scenderanno in campo. Il mio dolore sarà lontanamente mitigato dallo schermo che il nostro regista inglese ha fatto montare sul set a Palermo, contro ogni regola, per permettere alla troupe - per il 90 per cento romanista che te lo dico a fa’ - di seguire e soffrire tra un ciak e l’altro. 
Gli inglesi, si sa, amano il gioco del calcio. Lo hanno anche inventato, e dunque sanno anche bene che alle 21 di oggi la mia compostezza andrà a farsi fottere. 
Non sarò a Budapest, è terribile. Penso che mentre scrivo mia figlia Anna è in viaggio con i miei due biglietti insieme al suo ragazzo, romanista accertato e certificato (ci mancherebbe). Roma-Budapest in macchina, tredici ore salvo intoppi. Il viaggio della Speranza. La sua, la mia, la nostra, quella di un popolo che sta cor core acceso da due settimane. Anzi da molto prima, da sempre. Ripenso a tutte le mie vigilie importanti. Alle attese interminabili in distinti Sud con mio papà e mio fratello Filippo, ciriole col crudo e pizza con la mortadella, si entrava alle 10 e la partita era alle 15. Mio Papà romano e romanista totale (le due cose sono inscindibili) ci portava allo stadio come alla Cappella Sistina, nei suoi occhi la fierezza di tramandare qualcosa di importante, quasi di sacro.
Ripenso al nostro viaggio Roma-Torino il 10 maggio 1981, l’attesa vissuta in macchina, l’euforia trasformata in rabbia. Perché il gol di Turone era buono, e forse ha ragione Biascica: lì c’erano sotto i servizi segreti.
Ripenso alle dieci ore di attesa prima di Roma-Liverpool, al balletto da pagliaccio di Grobbelaar, al dolore di quel finale atroce, subito rigenerato in amore al Circo Massimo. Perché amore e dolore a Roma camminano sempre insieme. E sta cosa a noi chissà perché un po’ ce piace pure.
Ripenso al 20 aprile 1986, sempre noi tre, Papà Filippo ed io, prima di Roma-Lecce, dopo la rincorsa di 8 punti sulla Juve, ad applaudire entusiasti Dino Viola nel suo sciagurato giro di campo trionfale prima della partita. Incoscienti, lui e noi. Ma siamo così, non cambieremo mai.
Ripenso al 9 gennaio 2000, vigilia di Milan-Roma, io terrorizzato che qualcuno si accorgesse che il vero Cage non fosse a San Siro con Galliani, ma sbragato sul divano di casa sua a Beverly Hills con un Martini in mano.
E poi Madrid, di nuovo a fingermi Nicolas, tutti i regali del Presidente Calderon, io a centellinare i sorrisi per paura che mi si staccasse il labbro finto mentre Robinho mi chiedeva una foto. 1-2 Taddei Vucinic. Ero lì, dentro Nicolas, ma ero lì. Perché oggi no? Non è giusto.
E poi 22 maggio 2022. Tirana. Lo stupore di essere lì. La gioia, le lacrime.
E tante altre attese, vigilie interminabili. L’attesa di una partita importante della Roma e un’inquietudine che prende alla bocca dello stomaco circa dieci giorni prima e non permette di digerire bene. Provoca irritazione crescente, insofferenza e scatti d’ira improvvisi. Tutti sintomi che durano fino alla fine dei minuti di recupero e poi scompaiono di colpo. Si potrebbe definire una malattia a scadenza. 
Mia figlia mi chiama. 
«Papo siamo arrivati, grazie dei biglietti. Ah volevo dirti che ho portato la tua sciarpa, quella del gruppo storico, così è come se ci fossi un po’ anche tu…».
Resto in silenzio, penso a mio papà. Se la guarda lui da lassù, posso guardarla anch’io da Palermo.
Non sarò a Budapest. È giusto così.

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