Datome: «Adesso è la mia America»

Datome: «Adesso è la mia America»
di Carlo Santi
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Lunedì 16 Marzo 2015, 06:15 - Ultimo aggiornamento: 12:56
L'INTERVISTA

Ha lasciato Detroit dove era uno sconosciuto, è sbarcato a Boston ed è subito tornato il giocatore che conosciamo. Gigi Datome, il capitano della nazionale, si è presentato alla prima partita con i Celtics contro Orlando con 10 punti in 9' e adesso viaggia a 12 punti di media.

Finalmente la Nba si è accorta di lei. Qual è la sensazione che ha provato arrivando ai Celtics?

«Felicità e soddisfazione, per aver avuto una chance. Ora sta a me continuare a meritarmela per avere ancora minuti. So bene che non ho ancora fatto nulla e che devo ancora dimostrare tutto qua in Nba».

Adesso c'è un'altra America. È tornato un vero giocatore e lo dimostra sul campo. Cosa è cambiato dopo qualche partita giocata nella D-League?

«La D-League mi ha dato un minimo di vetrina in più perché in America se non ti vedono spesso dimenticano che esisti. Adesso sono a Boston, aria nuova e occasione nuova: voglio giocarmela».

A Boston non la conoscevano. In un attimo è diventato il giocatore del giorno. Come ci si sente dopo più di un anno di anonimato?

«Danny Ainge, il gm dei Celtics, mi seguiva già dai tempi di Roma ma in effetti per i tifosi ero un oggetto misterioso. Sono contento di aver aiutato la squadra e di aver dato il mio contributo».

A Boston è scoppiata la Datome-mania e lei è paragonato al SuperMario della Nintendo.

«Ho visto che sui social è successo il putiferio. Fa piacere esser stato motivo di sorriso perché credo che sia importante non prendersi mai troppo sul serio. Anzi, ringrazio tutti i fan in Italia che con me sono davvero troppo buoni!»

Cosa le ha insegnato l'anno e mezzo in America aspettando l'occasione che non arrivava per dimostrare il suo valore?

«Ho rafforzato in me il credo che non ci sono scorciatoie alternative al lavoro. È con il lavoro quotidiano che si ottengono risultati e senza lavoro non si riesce a bluffare, nella vita e nello sport. Attendendo una occasione ho lavorato su me stesso e sul mio corpo per farmi trovare pronto. Era l'unica cosa da fare».

Non ha mai avuto voglia di dire lascio tutto e torno in Europa?

«Mai. Lo stato d'animo a volte non era dei migliori, ma era normale. Mi ero dato una scadenza biennale per provare la carta Nba: Mollare prima non avrebbe avuto senso».

Com'è il rapporto con il nuovo coach di Boston, Brad Stevens? Cosa le ha detto sul suo impiego?

«È un coach giovane e ambizioso, che conosce la pallacanestro e sa essere garbato e diretto coi suoi giocatori. Mi ha detto che devo fare il mio meglio per aiutare la squadra e farmi trovare sempre pronto».

Boston è la casa di Pallotta, il proprietario della Roma calcio. Lo ha già incontrato dopo averlo conosciuto a Roma?

«Lui non vive a Boston, in compenso alla prima partita mi ha salutato la mamma, che è abbonata proprio accanto alla nostra panchina. Poi sono stato anche al ristorante delle sorelle di Jim, davvero carino. Quando verrà a Boston mi piacerebbe incontrarlo e salutarlo».

Torniamo all'esperienza di Detroit. Perché non giocava? Ha mai parlato di questo con il coach Van Gundy?

«Questa non è una domanda da fare a me. Col coach non ho parlato così direttamente ma mi ha fatto capire che avevo dei giocatori davanti. Mi dispiace non aver avuto nemmeno una chance».

L'America sta apprezzando voi italiani: lei, Gallinari, Belinelli e ora anche Bargnani. Un bel segnale anche se in Italia il campionato non decolla. C'è un motivo?

«Io credo che la crisi stia influendo molto, non solo in Italia ma anche in Europa. Se scarseggiano i soldi è importante che ci siano idee per sviluppare il movimento e per dargli visibilità. Perché in fondo il campionato italiano è interessante, combattuto e competitivo, anche se meno di una decina di anni fa».

Lo scorso mese ha incontrato il cittì Pianigiani con il presidente Petrucci. Avete parlato della nazionale e della prossima estate. Ci sarete tutti in azzurro?

«Certo! Ho incontrato il presidente e Simone e in quell'occasione tutti noi che siamo in Usa abbiamo confermato la presenza. Ma non vorrei si iniziasse già da ora a parlare degli Nba, come negli anni scorsi. Siamo un gruppo, la nostra forza è e deve essere il gruppo».

Come è cambiato, se lo è, in America dal punto di vista del gioco?

«Ho messo 8-9 kg di massa e questo mi aiuta a non farmi spostare nei contatti, ma credo anche di aver migliorato la rapidità d'esecuzione nel tiro. Il lavoro su me stesso mi è servito ad affinare alcuni aspetti del mio bagaglio tecnico».

Nessuno ha mai dubitato che lei potesse starci nella Nba. Adesso lo sta dimostrando. Per il futuro Boston o da un'altra parte?

«Deciderò solo dopo cosa fare. Spero di ricevere offerte importanti dalla Nba, perché vorrebbe che questi due mesi che restano sono andati per il meglio».

Se un team europeo la chiamasse?

«Come ho detto, aspetto di capire cosa succederà e quali offerte avrò. Non chiudo la porta a nessuno».

A Boston c'è stato un altro “romano”: Radja. L'ultimo anello è del 2008 e l'ultima finale del 2010. Cosa sognano i tifosi dei Celtics?

«Sognano tutti di qualificarsi nei playoff e speriamo di farcela, siamo lì a giocarcela. Radja? Devo ringraziare persone come Dino, perché grazie a quanto di buono ha fatto a Boston oggi un europeo come me viene visto con meno scetticismo».