Il Grand Tour italiano del maestro Chung: «Noi direttori d'orchestra siamo gli unici musicisti che non producono suoni. Non prendeteci sul serio»

Il maestro Myung-Whun Chung, sudcoreano, 69 anni
di Simona Antonucci
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 13 Luglio 2022, 22:23

«Ho sempre avuto un grande amore per la cucina italiana e quando arrivai a Roma, la prima volta, da Los Angeles, dove ero assistente del maestro Giulini, pensai di fermarmi almeno un anno. E ne sono passati quaranta». Nel frattempo Myung-Whun Chung, sudcoreano, 69 anni, è diventato uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo. E un ottimo cuoco: «Mangiare bene è stato un ottimo inizio». Tra i vari incarichi internazionali, tutti prestigiosi, è stato anche direttore principale invitato del Teatro Comunale di Firenze, poi pirettore musicale dell’Opéra Bastille e, dal 1997 al 2005 ha diretto l’Orchestra di Santa Cecilia che ora accompagna in un Grand Tour nel nostro Paese. Il 15 luglio al Teatro Greco di Taormina, il 21 allo Sferisterio di Macerata e 23 luglio a Villa Ruffolo di Ravello: in programma due dei capolavori sinfonici di Beethoven, le Sinfonie 6 e 7. A dicembre, il maestro, dirigerà il Falstaff di Verdi per l’inaugurazione del Teatro La Fenice.

  Qualche settimana fa ha suonato in Quirinale per la nostra Festa della Repubblica e Mattarella le ha consegnato l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito. Ormai è quasi italiano?

«È stato un onore. Il Presidente è un vero gentleman. E a quaranta anni dalla mia prima volta in Italia posso dire con sicurezza che provo un grande amore per questo Paese».

Ma è vero che nell’Ottanta venne in Italia anche per imparare a cucinare?

«Non pensavo certo di fare il cuoco, ma di mangiare bene sì. Parlo spesso del cibo perché è tutto legato. Non si può fare la musica italiana senza non pensare all’olio d’oliva, il rosso dei pomodori, il sole. Il canto italiano, così spontaneo, viene dalla natura. È fondamentale, nel mio lavoro, visitare i Paesi dove sono nati e vissuti i compositori, respirare la stessa aria, assaggiare gli stessi piatti, vivere la stessa cultura. Si impara tanto. Si scopre l’anima di un Paese».

Cosa le ha dato l’Italia?

«Non saprei dire perché, ma sin dall’inizio ho avuto relazioni ottime e scambi naturali. I rapporti umani sono molto importanti anche nel lavoro. E qui, dappertutto in Italia, le amicizie sono sempre state immediate. E non è scontato. Anche perché cambiando spesso orchestre e città non è detto che vada bene ogni volta».

Esiste una scuola italiana?

«Non saprei definire la scuola italiana. Certo è che in Italia, quando si fa la musica italiana, Verdi soprattutto, senti che è qualcosa che arriva dal cuore senza pensare».

Lei ora vive in Provenza: come ci è capitato?

«In questi ultimi 40 anni abbiamo cambiato casa sette volte, e ogni volta è stato tra Roma e Parigi. La Provenza è a metà strada. E lì c’è qualcosa che semplicemente unisce tutte le piacevolezze e rende la vita bella».

A Roma dove abitava?

«La prima casa che ho avuto a Roma era a via del Gesù, dove abitò Anna Magnani. Solo un anno, ma non male per cominciare».

Prima di venire in Europa è stato a lungo assistente di Giulini a Los Angeles: qual è stata la sua lezione?

«Quella di cercare sempre un buon equilibrio tra le capacità professionali e umane. È necessario attraversare la fase professionale.

Ma ora ne sono fuori. Il mio lavoro, oggi, è quello di ascoltare il mio cuore e servire quello dei compositori».

Suo figlio diventerà direttore d’orchestra, è contento?

«Due figli su tre hanno scelto di diventare musicisti. Il primo, l’unico cui, quando era piccolo, abbiamo suggerito di prendere lezioni di pianoforte, ha smesso. E fa altro. È qualcosa che bisogna scegliere da soli».

Consigli al giovane maestro?

«Non sono un buon esempio, anche perché la mia opinione su questo lavoro non è sempre positiva. Il direttore d’orchestra è l’unico musicista che non produce suoni: difficile prenderlo sul serio. Ora però, avrò 70 anni l’anno prossimo, dopo una vita di studi ed esperienza, quando mi chiamano maestro, non mi sembra più strano».

Studia anche ora prima della tournée?

«Avvicinare un grande artista come Beethoven è un processo che non ha fine. Non per scoprire qualcosa di nuovo, che può anche succedere, ma per approfondire l’amore. Come in una relazione matrimoniale. Io ho conosciuto mia moglie 50 anni fa e ogni anno il sentimento diventa più profondo. Lo scorrere del tempo, però, da solo non basta, anzi, può trasformare tutto in routine. Serve dedizione».

La Sesta sinfonia, come la presenterebbe?

«Si comincia sulla terra e si finisce guardando il cielo per dire grazie. È la prima sinfonia che ho studiato a 19 anni. Non mi ricordo come la feci. Ma ho la certezza che fosse terribile. Allora studiavo note, ritmo, tempi. Sapevo che era basata sulla natura, ma non ero in grado di entrare nello spirito della natura e cogliere quel grazie finale».

La Settima?

«Un intero mondo in poche note. Due. Nella quinta ce ne sono 4, la sesta è ridotta a tre. Nella settima arriva a due. All’atomo».

In tournée avrà modo gustare diverse cucine italiane?

«I piatti italiani li faccio io a casa. Mangio solo due cucine. Quella italiana e quella coreana. Qualche volta le due insieme. In Italia i piatti migliori sono quelli preparati in famiglia. Non amo i ristoranti ricercati, quasi francesi. Mi piacciono le cose semplici e in Italia si trovano ovunque».

Assistendo alla guerra in Europa e alle lotte sui confini, le viene in mente quello che è successo nel suo Paese?

«La situazione è fuori controllo. In Corea è stato diviso in due lo stesso Paese. Tutti i coreani speravano un giorno di riunirsi, ma dopo 70 anni è difficile conservare sogni. Niente cambia, anzi forse è tutto peggiorato. Il tempo non sempre migliora le cose. Ed questo il pericolo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA