​La doppia vita di Toti Scialoja, artista e poeta: tornano i libreria i suoi versi

La doppia vita di Toti Scialoja, artista e poeta: tornano i libreria i suoi versi
di Renato Minore
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Domenica 3 Settembre 2017, 10:28 - Ultimo aggiornamento: 5 Settembre, 17:35
Una doppia anima. O una doppia vita, così Toti Scialoja (1914-1998) considerava la doppia vocazione di artista e di poeta, pittore celebre che scriveva poesie. La pittura “è un fatto tecnico preciso, richiede impegno, artigianalità, fatica”: ogni mattina nel proprio studio, perennemente insoddisfatto di sé, pronto a ricominciare. Ma sempre fedele alla propria scelta di campo, l'astrattismo come “idea dello spazio: ci sono arrivato tardi, nel1953, ma da allora non mi sono più mosso, lo spazio pittorico non può che essere astratto come il pensiero non può che essere fenomenologico”. La poesia è la felicità di un risveglio avendo nella mente poche parole che già si muovono per formare un’improvvisazione sillabica e fonica: il poeta non fa altro che trascrivere, ed ecco, sulla carta, lo spiazzamento del nonsenso, Che fa scrivere, in “Versi del tempo perso”, fulminee e stralunate quartine come questa: “Quanto è languida l’anguilla/ mentre scivola sul fango,/ la saliva la scintilla/ come quando balla il tango”.

Uscita una prima volta nel 1989, la raccolta “Versi del tempo perso”, ora riproposta da Einaudi (con la prefazione di Paolo Mauri, e una rassegna critica di Orietta Bonifazi) è un’occasione per ripensare alla “doppia anima”, alla “doppia vita” di Scaloja, artista ma anche poeta di un’indiscutibile originalità espressiva nella poesia novecentesca. Poeta di rospi e conigli, zanzare e cani, «un cammello lungo il Corso», «due oche di Ostenda»... Quale stravagante e unico bestiario nelle sue poesie, al tempo dello scioglilingua e della filastrocca, dell'assonanza e dell’onomatopea. Quattro rutilanti ottonari raccontano: “Nelle grotte di Malacca / vive un’oca anacoreta / esce all'alba a far la cacca / la fa secca come creta”. Più velocemente, quattro settenari ricordano: “La stessa mosca ronza / e batte contro il vetro / a Monza, a Mosca, a Londra, / e perfino a San Pietro”. Parole passano e ripassano, triturate e reinventate, composte e riaccorpate, spezzate e rigenerate, anagrammate e potenziate, per favorire il loro ritmo segreto: quel di più (di paradossale e scintillante "natura") che si annida dietro la scansione fonica, dentro le intercapedini, a sorpresa disposte tra suono e senso.

Dopo un inizio come rimosso, con una tragedia molto palazzeschiana (“Morte dell'aria”, 1950, musicata da Petrassi) e alcuni poemetti in prosa (“I segni della corda”, 1952), giudicati da Pasolini “sotto il segno dell'espressionismo”, Scialoja diventa poeta a tutti gli effetti dopo il 1970. Lo diventa con le sue raccolte per bambini: “Amato topino”, “Una vespa Che spavento”. “Giro ghiro tondo”, riunite in “Quando la talpa vuole ballare il tango / poesie con animali. Una “scelta di tono, non di pubblico”, con cui egli si candida a essere (parola di Calvino) “il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico legato alla straordinaria tradizione inglese del nonsense e del limerick”. La conferma viene dalle altre raccolte non specificatamente "infantili", di cui ricordo tra tutte” “Scarse serpi”(1983) , “La mela di Amleto” (1984) “ I violini del diluvio (1991). Ecco un poeta leggero e malinconico, con punte di sulfurea angoscia e di enigmatica vitalità dentro l'universo delle forme metriche chiuse nel gioco della scansione ritmica e della rima. Una vera, invalicabile, gabbia. La necessità della regola è perennemente scardinata dalla libertà dell'infrazione, dal “mettere alla berlina ogni istituzionale menzogna”, partendo da quella più sotto tiro: la convenzionalità del luogo comune linguistico, schioppettato da ogni parte e con scanzonata tempestività, mescolando la logica dello spiazzamento di Carroll con una similingua poetica composta a blocchi, come in un puzzle. Scialoja scivola, come un acrobata, sul filo delle proprie allitterazioni. Colora deliziosamente di volatile fluidità e dì giocosa trasparenza il suono patetico e drammatico della vita quotidiana. E giunge a una perfezione metrica inusuale ed esasperata, quella dell'esametro sperimentato in “Rapide e lente amnesie” (1994) e “Le costellazioni” (1997: tutto Scialoja poeta è raccolto in “Poesie 1979- 1998, Garzanti, curate e introdotte da Giovanni Raboni, un volume purtroppo introvabile) E' un respiro «largo», alimentato dall'antica, ilare voglia dell'assurdo onomatopeico. Per ricordare ancora il poeta amato da Manganelli, con le “antiche e lente amnesie” che “conviene chiamarle frangenti”. “Schernevole e serio”, egli manipola «il puro piacere della commi-stione sonora, dell'incesto sonoro tra le parole».

Scialoja, che aveva ironicamente rifatto Carducci ("T'amo pio bue. Anzi ne amo due»), appare più nudo e lirico quando confessa: “E' soltanto dolore/ in ogni angolo della stanza”.Capita: sono, diceva, “le sorprese dell'età che pretende più sicurezze narrative, addirittura il verso lungo, gli esametri pascoliani”. E il pittore si dichiarava ancora sconvolto dal Goya che aveva dentro di sé scoperto durante una visita al Prado, nel 1982. “Quel suo nero assoluto m'è restato davanti agli occhi”. Nel nero di quello spazio, con semplici colpi di pennello, si potevano ottenere figure, maschere, gesti, “gente che parla e che canta”. Vere esplosioni, un mondo di forme che, deflagrando, recuperavano il disegno archetipico e il colore fondamentale in cui era espresso il sentimento del mondo: il nero, nerissimo dichiaratamente alla Goya che è il colore della malinconia saturnina, ma anche la prima, fondamentale mossa per riorganizzare lo spazio, per muoversi nel tempo.

Ma erano così diverse le due anime di Scialoja? L’una, quella d'artista, “materna”;“mia madre era appassionata d'arte, voleva che facessi il pittore, mi ha seguito fino ai suoi ultimi giorni”; l'altra, quella di poeta, “paterna” :“alla cultura umanistica di mio padre era permesso anche improvvisare liriche ironiche”. Scialoja non si sentiva scisso. Accettava volentieri la proposta di una qualche conciliazione a un livello maggiore di profondità dove i constasti diventavano semplici riverberi di superficie. “Come poeta credo nell'automatismo psichico, è il suono che mi conduce. Sento una parola sillabicamente, me ne nasce un'altra subito dopo.” E come pittore? “L'automatismo è lo stesso: mi spinge in pittura dove lo spazio è come un campo di libertà. Anche l'astrazione è la stessa: non esistono più concetti”.

 
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