Pat e le donne del desiderio
la biografia romanzata di Highsmith

Patricia Highsmith in una immagine del 1941
di Leonardo Jattarelli
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Mercoledì 3 Maggio 2017, 16:46 - Ultimo aggiornamento: 16:51
Gli appunti presi sfogliando, sparsi qua e là sulle pagine del libro, vanno a comporre già una minibiografia che odora di celluloide e profumo di mimosa, quello della sua amata Carol, al secolo Kathleen Senn, splendida e ambigua signora che Pat osserva muoversi davanti al bancone di Bloomingdale dove lavora come commessa. E’ la loro prima volta, l’inizio di un amore che segnerà un’esistenza. Ma ci saranno anche Lucy e Rose, Elizabeth e Liz, Catherine e Toinette e Andrea e Valéry…
«Un brindisi, alle strane passioni» quello di Patricia Highsmith, una delle più grandi scrittrici di thriller, noir psicologici dai tratti espressionisti e da Kammerspiel, baci e ferite, strangolamenti e guanti neri, coltelli e ombre e strani passeggeri della vita anni Cinquanta.

Solitudine
Pat finirà la sua in solitudine, nella casa in Svizzera con i gatti che ha sempre amato e le sue amorevoli lumache. A bere gin e a fumare Gitanes. Eppure se c’era un sentimento che non aveva mai provato era proprio la solitudine; il suo era uno spleen vitale: «Voglio avidamente vivere tante vite, voglio essere tante persone prima di morire» scriveva e osservava dal di fuori il suo muoversi tra America ed Europa, tra salotti borghesi e squallidi alberghi di periferia, stanze lerce di sesso femminile, di quelle donne che si portava dietro come tatuaggi e che allo stesso tempo ha sempre odiato, in qualche modo disprezzato come annoterà nel suo diario misogino. Lei Pat, mentre osservava, creava mondi.
Il cinema l’ha amata e buttata via come carta straccia, forse invidioso di tanta immaginazione: ed ecco ancora gli appunti annotati sul libro da “L’altro uomo” di Hitchcock (dal primo romanzo di Highsmith, “Sconosciuti in treno”) a “Delitto in pieno sole” di René Clement all’infinita saga del suo Tom Ripley ripreso dalle sapienti mani di Anthony Minghella e Liliana Cavani fino allo stralunato Wenders de “L’amico americano” e al recentissimo Todd Haynes di “Carol” con il volto sublime di Cate Blanchett.
Patricia Highsmith fa pensare all’anima cattiva e sincera di Bette Davis, ai suoi occhi d’acciaio: «Se prendessi la vita sul serio, mi sarei suicidata da un pezzo», «La sincerità è la peggiore politica. Quel che sento mi si legge in faccia, anche quando non parlo. La mia vita è una sequela di incredibili errori». A tirarla fuori dai casini, dal suo lesbismo difficile da dichiarare nell’America puritana e nell’Europa bigotta; a riuscire a strapparla al presente per vivere l’immaginazione, è stata, sempre, la scrittura. La sua arma più dolce e feroce insieme agli inseparabili amici di lettura, Gide e Camus, Kierkegaard e Kafka e Dostoevskij «perché le piace di quest’ultimo, la costante, aperta attrazione dei personaggi per il peccato, il proibito». Pat è una di loro: «Sui suoi quaderni neri traccia colonne, schemi comparativi dell’eros: le donne disponibili, quelle inaccessibili. Quelle brave a letto, quelle con cui si può parlare. Grafici dell’impossibilità dell’appagamento» scrive Margherita Giacobino nel suo godibile ritratto, una biografia abilmente romanzata della scrittrice dal titolo “Il Prezzo del sogno” (Mondadori).

Infanzia
La Highsmith che ama e odia sua madre e che scappa dal Texas, ribelle e ambiziosa, bella e dannata. Costretta a rileggere la sua infanzia triste in compagnia di una psicoterapeuta freudiana, una certa dottoressa Klein: «I miei si sono sposati e separati prima che io nascessi. Per la verità non dovevo neppure nascere, lei ha cercato di abortirmi bevendo trementina ma non c’è riuscita». Che razza di donna poteva crescere sulla pelle della piccola Pat? Una scrittrice bulimica e appassionata, un gigante tenero e feroce e, infine, l’esatto contrario del suo personaggio più famoso, quel Ripley partorito in un giorno di fine autunno in un paesino del sud Italia. Ripley è un bluff, Patricia non lo è mai stata.
Che si trattasse di impegno politico negli anni della guerra del Vietnam, quando diede alle stampe Il diario di Edith, o della celebre intervista al New York Times mai pubblicata dove tuonava contro il Vaticano per la proibizione della pillola: «Gli Stati Uniti dovrebbero bombardare la Santa Sede». E che si trattasse di letteratura, la sua. Quella che le era necessaria per uccidere chi detestava, in particolare tutte le donnette stupide: Clara in “Blunderer” Melinda la ninfomane in “Acque profonde”, Effie la seccatrice in “Questa dolce malattia”, Nickie la megera nel “Grido del gufo”, Peggy la fragile in “Quelli che se ne vanno”. 
Lei, Pat, invece a modo suo ha sempre amato: «L’amore - scriveva - è il solo modo di raggiungere l’assoluto, di sfuggire per un po’ alla morsa dell’incompiutezza, dell’inadeguatezza. Alla prigione di se stessi».
 
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