Un museo per Carmelo Bene, consacrazione o prigionia?

Un museo per Carmelo Bene, consacrazione o prigionia?
di Luca Ricci
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Venerdì 7 Novembre 2014, 17:18 - Ultimo aggiornamento: 8 Novembre, 19:16
Nonostante lui fosse convinto di non esistere, a Otranto faranno un museo dedicato a Carmelo Bene.



760mila euro dai fondi europei più 100mila euro dal comune per metterlo sotto teca. Chissà che ne avrebbe pensato il diretto interessato, forse il più antiaccademico e irregolare del nostro novecento artistico (e la concorrenza è agguerrita, per citarne tre: Antonio Ligabue, Dino Campana, Alda Merini).



Originario del Salento, terra magica e cattolicissima, Carmelo Bene da bambino è uno strepitoso chierichetto. Arriva a servire anche quattro o cinque messe al giorno, scoprendo proprio all’altare la sua vocazione per il sacro. Dalla religione passa al teatro, in fondo soltanto un altro tipo di chiesa. Alla fine degli anni cinquanta sbarca a Roma con spirito caravaggesco, frequentando l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Ma in quei primi anni turbolenti del suo apprendistato contano più le bevute e le risse che non le lezioni di canto, ballo e dizione. Una notte in gattabuia è più istruttiva di una dispensa di drammaturgia: per l’arresto è sufficiente atteggiarsi a mendicante, smettere di radersi per qualche tempo.



Prime infatuazioni teatrali: Caligola di Camus e la poesia di Majakovskij. Ma non tollera che a dirigerlo siano altri, perciò si adopera per diventare regista di se stesso mettendo in piedi il malfamato Teatro Laboratorio in un locale di Trastevere. Mette in scena spettacoli osceni per minare le certezze dei nuovi borghesi nati col boom economico. Sputi e urina diventano gli elementi imprescindibili delle sue performance, ma per fortuna si ferma un attimo prima di venire retrocesso a macchietta. Tra quelli che dicono che dietro la voglia di scandalizzare a ogni costo si nasconda un vero artista ci sono anche Flaiano, Arbasino, Moravia.



Carmelo Bene comincia a gettare le basi teoriche del suo lavoro attraverso la Salomè di Oscar Wilde e l’Amleto di William Shakespeare, insieme a Lydia Mancinelli, Sergio Citti, Leo de Berardinis. L’intento è quello di disfare il teatro inteso come spettacolo e rappresentazione di Stato, inanellare atti e non azioni sceniche, insomma porgere al pubblico una trascendenza sottoforma di liturgia atea. Nel 1967 si lascia dirigere da Pier Paolo Pasolini nel film tratto da L’Edipo Re, prima di finire lui stesso dietro alla macchina da presa. I suoi lungometraggi incarnano alla perfezione l’aria del tempo, restituiscono le smanie sperimentali di un’arte che non accetta nessun compromesso con il pubblico né con la critica: non sono fruibili, ma sono decisivi. Un po’ come era avvenuto con James Joyce per il linguaggio (l’Ulisse è un’altra delle sue ossessioni), Carmelo Bene fa esplodere le immagini trasformandole in pura visione.



Sul finire degli anni settanta torna a teatro e si trasforma in C.B. la Macchina Attoriale. Con l’aiuto dell’amplificazione può sottrarre la sua voce alla dittatura della recitazione tradizionale, dell’odiato birignao da grande mattatore. Si parla addosso, si parla dentro, si tramuta in semplice phoné, suono comprensibile a tutti perché non significa nulla. In questo modo nel 1981 può sussurrare Dante a oltre centomila persone, issato sulla Torre degli Asinelli di Bologna. Nel frattempo diventa anche uno strepitoso personaggio televisivo, uno dei pochi che fin dalle prime ospitate non si lascia cambiare dal più diabolico degli elettrodomestici di massa. Passa indifferentemente dagli studi di Aldo Biscardi a quelli di Maurizio Costanzo.



Col passare del tempo le contraddizioni si accentuano: il massacratore di commediografi e scrittori che ridusse sempre il testo a un pretesto fa inserire l’insieme delle sue opere nei classici Bompiani; l’attore delinquenziale che imbrattava le pellicce delle signore in prima fila comincia a tingersi i capelli... Chissà come reagirebbe oggi alla notizia del museo- questo ritratto dell’artista imbalsamato-, all’idea consolatoria che per comprendere un mistero sia sufficiente fare la fila e acquistare un biglietto.



(Twitter: @LuRicci74)