"La leonessa lasciva", un tuffo nella Firenze di Savonarola

"La leonessa lasciva", un tuffo nella Firenze di Savonarola
di Carmine Castoro
5 Minuti di Lettura
Lunedì 4 Maggio 2015, 15:21 - Ultimo aggiornamento: 6 Maggio, 17:36
Le acque torpide e torbide dell’Arno. Il crepitio delle fiaccole. I vicoli bui e angusti. Il puzzo di pece. Mani sottili e aghi puntuti nella calma rarefatta e semiclandestina di una “stamperia” nascosta in una panetteria di via dei Cerchi, nel cuore della Firenze del 1498, travolta da turbolenze etico-politiche che la segneranno per gli anni a seguire. Ne “La leonessa lasciva” Francesca Di Gioia ci getta subito, con rapide pennellate, in questa temperie fatta di ombre e di rinunce, di coscienze tormentate e utopie regressive, di povertà della borsa e splendori dell’interiorità, che accompagnarono l’apogeo, la dimenticanza e l’oltraggio di una figura controversa come Girolamo Savonarola, leader incontrastato e poi impaccio da rimuovere con le macine della Storia dal Maggior Consiglio della città gigliata.










Su questo fondale storico, urbano, artistico, si stagliano le figure di una famiglia di suoi seguaci, la giovane Bice, i genitori Anna e Pietro, il promesso sposo di lei Vanni, legati a doppio filo a tutti i confratelli del Savonarola definiti “piagnoni” poiché facevano pubblica dimostrazione di autoflagellazione e penitenza, di rigore dottrinario e tremebonda imitatio Christi.



Savonarola guru spirituale, educatore delle masse prostrate dalla fame e dalla miseria – o forse ad esse ricondotte docilmente con l’annullamento di ogni riscatto sociale -, fulgido esempio di una condotta morale recalcitrante ad ogni vanità, ad ogni azzardo, ad ogni spiffero di diabolicità. Ma anche il Savonarola incubatore di medievalità, censore claustrofobico di una civitas orante, dimessa e senza respiro, pugnalatore del progresso, ribelle ai venti della modernità, del commercio, del lusso e del mecenatismo etichettati senza rimedio come espediente del demonio, plutocrazia, culto dell’effimero e inesorabile spegnimento della luce divina. E’ lui il vero protagonista di questo breve romanzo che ne rivede gli ultimi mesi prima dell’atroce condanna a morte in piazza della Signoria, personaggio che ha diviso le folle e spaccato i poteri, ortodossi e conservatori di qua, filo-medicei e papalini di là, che ha obbligato a un durissimo bivio, fra una vita liturgica, cinerea e interdetta alle passioni e agli slanci delle libertà personali, e gli scintillii di un protocapitalismo che cominciava a disseminare il suo selciato di merci, traffici, sapori e sfarzi rinascimentali. Inginocchiatoio contro Ingordigia.



Di Gioia esprime questo clima plumbeo e la soggezione ingenua ma venerante della famiglia al culto dei frati domenicani e del loro Padre indiscusso con uno stile volutamente asciutto, levigato, oleografico che, seppur nell’acerbità brevilinea di alcuni passaggi, si rivela alla fine la cifra linguistica più adeguata per esprimere quell’ordito politico fatto di pudori malcelati, di una cittadinanza sacrificata, di nascondimento del sé, di cerimonioso rincorrersi degli eventi in una ripetitività che sa di obbedienza sacramentale al Verbo divino. Potenza suprema, questo, dominio incondizionato dei cuori che ebbe in disdoro qualsiasi scatto, qualsiasi rabbia, qualsiasi rivendicazione che non si accomodasse nel coraggio della fede, e nel grembo tranquillo di una natura prona nello svolgere il suo compito disegnato dall’Alto, fra mestieri, domesticità, natalità e omaggio a chi sa e insegna agli altri il grande messaggio della vita santificata. In questo Di Gioia “tradisce” legittimamente la sua adesione, per così dire, a una delle due fazioni in lotta nel capoluogo toscano del tardo XV secolo. In un affresco che pur dipinge, come se stessimo tutti là, il candore della sottomissione fra autorità familista, fiscelle e zinali, cocchi alla buona e pani cotti sul focolare, manca la parte avversa al pensiero di Savonarola, la voce degli aristocratici esuli, del lontanissimo Alessandro VI, degli scricchiolii di un tardo feudalesimo restio ormai al cielo grigio di una ciclicità immutabile.



Eppure anche qui, il limite ideologico dell’autrice, al pari di una certa opacità stilistica e narrativa, si rivela la più congrua rappresentazione di un ethos chiuso e incombente, di una cura del Cielo che richiede la consegna della bellezza, degli esiti felici e dell’autocontrollo di tutte le singolarità coinvolte. Bice che si ricorda quasi di amare un uomo in carne e ossa solo di sponda alla grande trepidante adorazione del sapere di Savonarola, che corteggia la sua erudizione più di ogni altra cosa, un’intera classe popolare che vede in lui un progetto più alato, una salvezza annunciata seppur destinata a una fine cruenta e vergognosa. Cloture e couture. Clausura e cattura. Paranoia e paramento. Come si conviene ad ogni rigidità eterna statuita da una Scrittura che non prevede errore.



Ma se errore è anche errare, divergere, scivolare, ecco che l’autrice ci mostra la Storia, quella con la S maiuscola, attraverso un brulicare, un formicolare, piccole grandi febbri di cui quasi non si coglie il senso. E il peccato, quello vero, carnale e passionale, divorante ed esaltante, sgrana anche l’identità perfetta di un emerito tonacato come Girolamo che, alla fine del testo, assurge a ben altro profilo con lo squarcio di un’indomita debolezza, una vita che serpeggia e che vira al giallo dell’intrigo, al rosso del sentimento, al bianco di una nuova creatura l’integrità cristallina di chi sembra mostrare solo virtù.

L’esito migliore del testo della Di Gioia, forse, è proprio questo, avvincerci e ammaestrarci sulla vittoriosa e gentile emergenza di un’Umanità che sconfigge il Concetto per svelare al mondo la ferita dell’incontro con se stessi. Dietro il rogo di Savonarola, un rimbalzo simbolico si appalesa: quel fuoco ancor più straziante che la razionalità mercantile edificherà al posto del suo torvo oscurantismo e che ancora ravviva e uccide nella contemporaneità la nostra voglia sincera di forgiare il Tempo.



Francesca Di Gioia è giornalista pubblicista, cura il blog di storia e critica dell’arte “Profeti e Sibille” su Il Mattino di Foggia. Laureata cum laude in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università “S. Orsola Benincasa” di Napoli. Si è specializzata in bulino presso l’Istituto nazionale per la grafica di Roma e si è diplomata in Biblioteconomia presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. È docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Ha pubblicato “Invenit, delineavit et sculpsit”, “Vissi d’arte” e “Profeti e Sibille. Capolavori dell’arte italiana”; con “La Leonessa lasciva” firma il suo esordio nella narrativa; il romanzo ha vinto nel 2014 la Menzione speciale al Premio letterario internazionale Casentino, nella sezione inediti.



Francesca Di Gioia “La leonessa lasciva” (Galassia Arte, pagg. 123, euro 16)