"Gastromania" di Gianfranco Marrone: e siamo tutti Masterchef

"Gastromania" di Gianfranco Marrone: e siamo tutti Masterchef
di Carmine Castoro
4 Minuti di Lettura
Giovedì 26 Febbraio 2015, 05:09 - Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio, 16:32
Che sia retaggio di sapienza ortolana o di esoterici ricettari della nonna. Che sia in eroica lotta contro trigliceridi e colesterolo o cada nelle tentazioni delle untuosità multiaromatiche dello street food.

Che attecchisca nel prezioso umidore di cantine storiche e disabitate o furoreggi nel fuoco mediatico di mille format, blog, eventi mondani e tam-tam internettistici, il cibo sembra essere diventato ormai il nuovo totem intorno a cui si costituisce e conserva una Repubblica che ha ridicolizzato il “lavoro” come diritto fondamentale ma guarda con sacro rispetto a fornelli e tegami, cuccume e zuccheriere.



Gianfranco Marrone, studioso erudito e scintillante, ci accompagna con stile e citazioni d’atmosfera in un percorso mangereccio costellato di chef a cinque stelle, chioschi da non-luogo metropolitano, botteghe di bucoliche preziosità, meglio (o peggio) se “eque e solidali”, ristoranti da gran gourmet, itinerari eno-gastronomici e mappe del bon vivre fra argenterie, calici, focaccine e bottiglie d’annata. E indaga, da vero detective della tavola apparecchiata, tutte le storture semantiche, ma anche le raffinatezze segrete, di una vera e propria deriva antropologica che ci porta continuamente ad assaggiare, annusare, centellinare, sbocconcellare, se non a ingozzarci, rimpinzarci, impregnarci di sapori e odori, spadellare pietanze, gradire piatti “forestieri”, sperimentare arti culinarie, mentre un tempo giocavamo solo alla schedina o al massimo ci concedevamo un cinemino.



Un trionfo di bistecche e pasticceria, contorni e kebab, che svaria di latitudine in latitudine e traccia da qualche anno l’orologio biologico dei nostri vitali interessi, come dei più innocenti passatempi. Ma è vera gloria tutto ciò? Ovvero: dietro tutto questo dardeggiare di palati e narici, forchette e vassoi, c’è una vera ripresa della cultura domestica, del gusto filosoficamente inteso, del pranzare come funzione sociale della conoscenza e della reciprocità? La risposta è un timido “ni”.



Un dato, intanto, Marrone lo mette bene in evidenza: l’onnipresenza cannibalica dei media, soprattutto quelli televisivi, che, da Masterchef a scendere, hanno all’improvviso creato dal niente una generazione di trinariciuti cuochi, severi, inappellabili, invalicabili come un Everest di presunzione e know-how. Sicché, in questa “indecidibilità mediatica”, dove – dice Marrone – “non c’è un dentro e un fuori dei media, un mondo reale e la sua rappresentazione mediatica, ma un andirivieni continuo in cui i processi di costruzione e ricostruzione di senso, andando in entrambe le direzioni – dal mondo ai media e viceversa – finiscono per costruire sia il mondo che i media”, non possiamo far altro che assistere da spettatori incalzati e affamati, a re delle portate più decorative “a cui viene domandato non tanto e non più di parlare di cucina, ma di intervenire sulla politica o sull’economia, sulla crisi finanziaria o sulle sorti del pianeta, sulle possibili strategie per riattivare la cultura o sui significati spirituali profondi del nuovo pontificato”. E non è cosa da poco: siamo di fronte a un nuovo regime di discorsività sul vero, sul buono e sul giusto che, foucaultianamente, sembra passare per i dispensatori di gioie gastriche e di pesantezze (intestinali) dell’essere, più che per opinion leader di chiara fama.



Il potere. E le mitologie dell’”autenticità”. Anche queste ulteriori maschere di gomma Marrone sradica dalle facce appisolate dei buongustai tricolore. Perché si continua ad associare la bellezza alla magrezza, al controllo quantitativo delle calorie, alle leggende Weight Watchers, ad una latente e pericolosissima ortoressia, quando pancette e maniglie dell’amore, nella giusta misura, non hanno mai fatto del male a nessuno, all’eros soprattutto? La nostra società teme “l’emergere incontrollato del disordine, la mancanza di regole cui fare fiducioso riferimento, la sparizione di valori forti ai quali appigliarsi, l’evaporazione generalizzata del senso”, e allora, tramite controlli medici costanti, gastroplastica, pillole dimagranti e rotondità da non dormirci la notte, si cerca “una specie di consolazione posticcia, un’identità rabberciata, un qualunque principio d’ordine che possa scacciare i fantasmi del caos esistenziale prossimo venturo”.



Bilancia e snellezza come un novello Grande Fratello. Stesso dicasi per altre “Arcadie” che dovrebbero risparmiarci oli rifritti, zabaioni da colica, polpette da Poldo suicida e coloranti da ittero galoppante. Non esistono, ci allerta Marrone, zone franche da quel melting di culture, incontri, cross-etnicità, concept che possano farci arrivare a un “grado zero” del benessere totale fra i denti e nell’esofago. Né l’arte casareccia anteguerra dei nostri avi, né le tanto strombazzate specificità locali, né il giardino delle delizie dell’agricoltura ecosostenibile, né il libertinaggio da marciapiede che garantisce lo sfamamento zingaro da roulotte di porchette e hamburger de noantri. Tutto è rimescolato unanimemente e, in fin dei conti, positivamente, con qualche enclave da evitare tassativamente.



Perché il vero snodo è quell’essenza semidivina, quasi agalmatica, che l’alimento possedeva un tempo, nella grecità soprattutto. Quando la “dietetica” era soprattutto etica, ed era inserita in una più generale igiene del corpo e della mente, della salubrità e della sessualità, dell’atleticità e della politicità che non dimenticava la forza del temperamento e la vera “cruditè”, che era quella delle idee coraggiose e della robustezza del pensiero.



Tutto il resto è vanagloria da intrattenimento di massa, opuscoletto da viaggio fai-da-te, vagheggiamento idilliaco dell’epoca che fu. Così sembra. Anche se alla fine del libro, un piccolo peccato epistemologico diventa una speranza più netta e luminosa: che la “grande abbuffata” sia foriera, cioè, per il nostro autore, non solo di ambivalenza e sciocche frivolezze estetiche, ma anche di una più profonda rivalutazione di quello che siamo. Ma qui cala l’ombra della vecchia querelle fra apocalittici e integrati. Per digerire la quale, un boccale dell’amaro del Capo non basterebbe…



Gianfranco Marrone, saggista e scrittore, insegna Semiotica all’Università di Palermo e collabora con diversi giornali. Si occupa di linguaggi, discorsi e media nella cultura contemporanea, analizzando fenomeni diversi come il giornalismo e la fiction televisiva, lo spazio della città e le tecnologie comunicative, la gastronomia e la corporeità, la comunicazione di marca e l’ideologia naturalista. Tra i suoi libri: “Il sistema di Barthes” (1994), “Corpi sociali” (2001), “La Cura Ludovico” (2005), “L’invenzione del testo” (2010), “Addio alla Natura” (2011), “Stupidità” (2012).



Gianfranco Marrone “Gastromania” (Bompiani, pagg. 203, euro 14)