Coppa Davis, 40 anni fa il trionfo in Cile: un libro ricostruisce l'epopea degli azzurri

Pietrangeli e Bertolucci
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Giovedì 8 Dicembre 2016, 15:50 - Ultimo aggiornamento: 13 Dicembre, 12:46

Nel dicembre di 40 anni fa l'Italia conquistava a Santiago del Cile una storica Coppa Davis. La finale, e le feroci polemiche che precedettero la trasferta degli azzurri nel paese di Pinochet, vengono ricostruite con testimonianze dei protagonisti nel libro "1976, Storia di un trionfo. L’Italia del tennis, Santiago e la Coppa Davis", di Lucio Biancatelli e Alessandro Nizegorodcew (Ultra Sport, pp. 192, 16 euro). Pubblichiamo un estratto del ricordo di Paolo Bertolucci.

Di quella cavalcata vincente ricordo soprattutto un “15”. Ma lo ricordo benissimo, come fosse oggi: settembre 1976 a Roma, il Foro Italico gremito, non sarebbe entrato nemmeno uno spillo. Giochiamo la semifinale contro l’Australia dei miei idoli da ragazzo, John Newcombe e Tony Roche. Siamo all’inizio del match e mi arriva una pallata addosso pazzesca da Newcombe. Io d’istinto vado a coprire il lato destro del campo, non so come ero convinto che fosse arrivata lì. La palla magicamente mi arriva proprio sulla racchetta e riesco a piazzare un colpo vincente. L’esplosione dello stadio in quel momento lì ci diede una carica pazzesca per tutta la partita che vincemmo 3 set a zero contro i pluricampioni di Wimbledon.

A Santiago ci fu il trionfo, ma tecnicamente la vera finale fu quella. E quando nei singolari si fa 2 a 2, come accadde allora, capite bene che il punto decisivo viene dal doppio. Quel doppio che con Adriano Panatta interpretammo tanto bene in coppa Davis (22 vittorie e 8 sconfitte) e che fece dire al capitano di Davis australiano, Neale Fraser, all’indomani del nostro ritiro: “Panatta e Bertolucci si sono ritirati, ora finalmente potremo tornare a vincere un doppio in Coppa Davis”.

Era accaduto infatti che anche nel 1977 (finale a Sidney, sull’erba, contro Alexander - Dent) e nel 1980 (a Roma contro Mc Namara Mc Namee) avevamo regolarmente battuto tutte le coppie di doppio che i fortissimi australiani ci avevano opposto. Considero queste tre vittorie nei doppi contro i canguri – in particolare quella sull’erba di Sidney, anche se purtroppo non ci bastò per rivincere la coppa – i ricordi più belli nella mia carriera di doppista in Coppa Davis. (...)

In quanto alla finale, non mi dilungo su tutto ciò che accadde prima, e sul ruolo di Nicola Pietrangeli per ottenere il sospirato lasciapassare alla trasferta in terra cilena. Sapevamo di essere troppo più forti: Cornejo, il loro secondo singolarista, non avrebbe mai potuto battere né Panatta né Barazzutti. C’era Fillol che avrebbe potuto portare a casa un punto (tutti e due era veramente dura), e poi un doppio non eccezionale ma di buon livello. Pensavamo che nella peggiore delle ipotesi avremmo vinto 3-2. Sapevamo del resto che quella era un’occasione veramente unica, e difatti le finali successive, con Usa, Cecoslovacchia e Australia sempre fuori casa avrebbero confermato la nostra percezione: quella era un’occasione storica che non avremmo dovuto assolutamente farci scappare. Non a caso Belardinelli usava parole forti per caricarci: “Dovete scendere in campo con l’elmetto, sarà una guerra”.

Dopo il 2-0 per noi nella prima giornata, volevo a tutti i costi mettere la mia firma su quella Coppa Davis e dunque vincere il doppio, chiudendo così 3-0 dopo la seconda giornata. Non giocai un gran match, ricordo molta tensione, faticammo non poco soprattutto all’inizio, del resto loro erano una buona coppia di doppio e ci avevano battuti pochi mesi prima, a Parigi. Ma volevo festeggiarla in campo quella Coppa Davis, e l’abbraccio liberatorio con Adriano e poi con tutta la squadra dopo l’ultimo punto non lo dimenticherò mai. Era la gioia enorme di un gruppo e di un “padre” tennistico, Mario Belardinelli, che ci aveva preso da ragazzi e ci aveva condotto fin lì. Avevamo coronato un sogno.

In Davis in quegli anni era difficile batterci. La nostra forza era quella di un gruppo di giocatori nati negli stessi anni, ma con caratteristiche tecniche diverse. Questo ci permetteva di affrontare con armi diverse i nostri avversari, e saper anche fronteggiare superfici diverse. Vedi Zugarelli sull’erba di Wimbledon. Giusto, dunque, celebrarla ancora oggi, a 40 anni di distanza, questa vittoria. Sinceramente, pensavo che nel giro di 10, 15 anni l’Italia avrebbe potuto ripresentare una squadra forte tanto da riaprire un ciclo, e salire al vertice per qualche anno, andandosi a ri-giocare la Coppa. Così come del resto avevamo fatto noi, 15 anni dopo le finali di Pietrangeli e Sirola. Nel 1998 tornammo in finale ma fu un mezzo miracolo, c’erano tante squadre più forti della nostra.

Se penso che abbiamo giocato 4 finali di Davis in 5 anni e tutte fuori casa, l’unico rammarico resta proprio quello di non aver mai ospitato una finale. Se ripenso ai brividi che provai al Foro Italico nel 1976, con il pubblico che ci caricava nella semifinale contro l’Australia, penso che oggi non basterebbe uno stadio da 50mila posti.

Noi alla Coppa Davis ci tenevamo moltissimo, soprattutto per la visibilità che ci dava nei confronti del nostro pubblico in Italia. La Rai ci seguiva, e non era come oggi che il tennis è in tv tutti i giorni. Contratti e sponsorizzazioni vennero soprattutto grazie alla Davis, ma non era solo quello. Eravamo nati e cresciuti con il mito della maglia azzurra con l’orgoglio di rappresentare l’Italia. Quando veniva intonato l’inno italiano tutti in piedi, avevamo la pelle d’oca. Oggi è decisamente calata l’intensità. Alla fine come premio ricevemmo dalla Federazione un orologio, ma dovevamo comunque molto alla Federazione. Senza il sostegno della Fit non avremmo mai avuto le opportunità che ci furono offerte in quegli anni dal centro di Formia e da una guida come Mario Belardinelli. Fu lì, nel centro tecnico di Formia, dove la mattina andavamo a scuola e il pomeriggio eravamo in campo ad allenarci e sudare che nacque il nostro spirito di gruppo. Noi abbiamo vissuto uno sport individuale per eccellenza con la consapevolezza di essere una squadra. E fu quella la nostra forza. 



 

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