Fernando Aramburu: «A Roma per parlare di libri dimenticati e della memoria del mondo»

Lo scrittore spagnolo al Festival Letterature

Fernando Aramburu: «A Roma per parlare di libri dimenticati e della memoria del mondo»
di Riccardo De Palo
4 Minuti di Lettura
Lunedì 3 Luglio 2023, 14:32

«Senza memoria, l'essere umano sarebbe un guscio vuoto», dice Fernando Aramburu, in un albergo guarnito di colonne e capitelli antichi, vicino alle rovine romane dei Fori. Stasera lo scrittore di San Sebastián, 64 anni, autore del bestseller Patria, sarà l'ospite d'onore del Festival Letterature, che ha come tema portante La memoria del mondo, dal titolo di un racconto di Italo Calvino.


Sul palco dello Stadio Palatino ha deciso di raccontare il triste destino di un libro dimenticato. Perché?
«Ho immaginato che un libro potesse raccontare la propria esperienza, lamentarsi della propria perdita di attualità, di non essere più letto da nessuno. Si può fare un paragone con la vita umana: con pochissime eccezioni, ognuno di noi prima o poi sarà dimenticato. Certo, alcuni riescono a superare questi limiti. Si tratta di grandi artisti, scopritori, scienziati. Ma pochi riescono a trascendere il proprio destino».


Lei quale libro ha dimenticato, e magari poi riscoperto?
«Ho una libreria che sta diventando sempre più grande, a volte spolvero e sposto i libri. E spesso li rileggo. E questo vuol dire non solo ritrovare un libro che abbiamo letto molto tempo fa, ma anche rivedere noi stessi come eravamo, a quel tempo. È un ricongiungimento con le sensazioni fisiche, l'odore del libro».


Qual è il libro che ha amato più di ogni altro?
«Ci sono volumi che hanno segnato un certo momento della mia vita, come il primo che ho letto, un classico del Sedicesimo secolo, Lazarillo de Tormes, che ancora possiedo, o quello che lessi quando cominciai a studiare tedesco, Madre Coraggio e i suoi figli di Bertolt Brecht».


"Letterature" celebra quest'anno Calvino, di cui ricorrono i cento anni dalla nascita. Quanto è stato importante per lei questo autore?
«L'ho ammirato molto da giovane, me lo consigliò un amico che leggeva molto e di cui mi fidavo. All'epoca, tra gli anni Settanta e Ottanta, Calvino era molto pubblicato in Spagna, anche in edizioni tascabili. Questo vuol dire che, in un'epoca in cui si facevano continue scoperte letterarie, era un autore molto popolare. Anche se aveva fama di uomo silenzioso, parlava correntemente spagnolo, e aveva contatti con gli scrittori iberici. Il suo nome appariva frequentemente nelle interviste agli autori spagnoli. Ricordo con speciale emozione la lettura del
Barone Rampante, che mi fece una grandissima impressione. Mi colpì particolarmente la possibilità di scrivere in maniera realistica storie così fantasiose: mi riportava direttamente al realismo magico sudamericano, che ammiravo molto».


Lei è tornato con l'ultimo romanzo "Figli della favola" alle atmosfere e ai luoghi di "Patria". Due giovani baschi, Asier e Joseba, lasciano tutto per entrare nell'Eta. Ma è possibile contrastare il terrorismo con l'ironia?
«Credo che il terrorismo si debba combattere in molti modi, e che il ruolo principale (ride, ndr) spetti alla polizia.

Non me lo immagino un terrorista che legge un libro e si convince ad abbandonare il suo intento. Ma l'ironia, lo humour, la satira, hanno la grande capacità di delegittimare l'aggressore, di presentarlo in maniera ridicola».


E la guerra contro l'Ucraina come la vede? L'indipendentismo acquista un diverso spessore, quando è in corso un'invasione?
«Non sono un politologo, posso solo fare speculazioni. Ma non ho alcun dubbio sul fatto che in Ucraina sia in atto un'invasione, una guerra di aggressione, e che gli ucraini meritino l'aiuto militare e la solidarietà di tutti noi».


Nel suo romanzo "I rondoni" il protagonista usa la memoria in maniera disincantata e immagina di togliersi la vita per diventare, a sua volta, un volatile. Ma in realtà non è affatto una storia cupa. Come mai?
«Ogni vita è diversa, ognuno ha la sua. Non dobbiamo generalizzare a partire dalla vita di un personaggio o di una persona reale. Credo che però sia chiaro che la nostra vita non sia la vita, se non una minuscola parte, quella che ci è toccata. Come ampliare il nostro orizzonte? Leggendo storie, guardando film. La nostra specie ha bisogno continuamente di storie».


Quel libro sembrava anche una riflessione sulla libertà, che può avere effetti devastanti. Era questo il suo intento?
«Sì, è possibile. La libertà è un tema che mi accompagna da sempre, dall'inizio della mia vita letteraria. Sono nato e cresciuto in dittatura: la libertà non era un concetto astratto, ma un'aspirazione. Era quello che non avevamo. Per questo non mi piace banalizzarla».


Che effetto fa parlare della memoria del mondo in un luogo così ricco di storia, come Roma?
«Roma è un luogo speciale. Per tutti gli abitanti d'Europa e di tutti quei paesi che sono stati "romanizzati", naturalmente. C'è molto di Roma in me, non perché io l'abbia introiettata, ma per ragioni storiche, religiose, linguistiche. È impossibile per me non sentirmi a casa quando sono a Roma».


E l'Italia cosa rappresenta per lei?
«È il Paese che ha prestato più attenzione ai miei libri, quello dove ho ricevuto più premi. E non ho delle spiegazioni per questo, ma credo che molti lettori italiani trovino i miei libri significativi. Accade, in maniera analoga, anche in Argentina, ma non nei Paesi nordici, in Scandinavia. Forse la storia che racconto assomiglia alla vostra».

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