Una passione medievale (2)

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Mercoledì 20 Giugno 2018, 11:28
Nessuna donna avrebbe detto ad Abelardo di no, ma nessuna disse di sì come Eloisa, soggiogata dall'enfasi delle sue lusinghe e del suo corteggiamento. L'amore mise le ali alla penna della giovane, intinta nel nettare dell'idolatria. Così titillò il compiaciuto narcisismo di Abelardo «Chi, dimmi, non correva a guardarti quando avanzavi in pubblico?... Non c'era donna, sposata o fanciulla, che non ti desiderasse in tua assenza e non ardesse in tua presenza. Qualunque regina, qualunque femmina potente avrebbe voluto per sé le mie gioie e il mio talamo».

Non solo il dio dell'amore, figlio di Venere e di Mercurio, ma anche Lilith, il demone della fornicazione, spinsero docente e discente, l'uno fra le braccia dell'altro in amplessi tanto più focosi quanto più arditi: «Prima scrive Abelardo ci ritrovammo uniti nella stessa casa; poi, nell'animo. Con il pretesto delle lezioni ci abbandonammo totalmente all'amore. Lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d'amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi.

La mano correva più spesso al suo seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era più spesso l'amore che la pagina scritta, oggetto della lezione. Per non sollevare sospetti, a volte la percuotevo, ma ero spinto dall'amore, non dal furore; dall'affetto, non dall'ira. E queste percosse erano più dolci di qualunque balsamo».

Nulla si negavano, fra abbracci clandestini e ardenti, trasgressioni pagane e senza rimorsi, alla ricerca di un piacere assoluto, di un godimento cosmico, che la coscienza del proibito, anziché censurare e mutilare, dilatava ed esaltava.

«Schiavo di questa passione avevo sempre meno tempo libero per dedicarmi alla filosofia e ai compiti scolastici Le mie lezioni si fecero poco accurate e fredde, nessuna delle cose che facevo era frutto del mio ingegno, ma solo della mia lunga pratica. Non facevo altro che ripetere ciò che avevo pensato precedentemente e, se inventavo qualcosa di nuovo, erano poesie d'amore, non questioni filosofiche».

Tutto era ormai palese, alla luce del sole. Tutti sapevano. Tutti, meno lo zio di Eloisa. «Quando, a volte - rivela il filosofo - qualcuno faceva delle insinuazioni, Fulberto non ci poteva credere, a causa dell'illimitato affetto verso la nipote e della fama d'illibatezza che circondava tutta la mia vita precedente». Quanto candore nell'occhiuto canonico che affidava «una così tenera agnella a un lupo affamato» come Abelardo definiva se stesso e l'oggetto della propria passione.

Ma improvvisamente e inopinatamente lo zio di Eloisa aprì gli occhi (o glieli fecero aprire), e per il biondo teologo e la bruna pupilla fu il dramma. Un dramma atroce. E l'onta di una tresca blasfema, il senso di colpa per la fiducia tradita. La fiducia riposta in entrambi da Fulberto.

«Quanto fui confuso dalla vergogna!» confessa il filosofo rievocando quei terribili momenti. «E quanto afflitto dalla preoccupazione per le sofferenze della mia giovane donna. Che tempeste di tristezze dovette sostenere Eloisa, sentendosi la causa della mia indegnità. Nessuno di noi due si preoccupava per le sue disgrazie, ma per ciò che colpiva l'altro.

Noi, fisicamente, eravamo separati, ma le nostre anime erano così unite che nulla poteva dividerle e, superata la vergogna, la passione d'amore ci ritrovò ormai privi di pudori. Da allora il nostro comportamento ci apparve meno scandaloso, proprio perché la passione dovette combattere sempre meno contro la vergogna».
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