La passione non si giudica. Si gode e si paga

di Roberto Gervaso
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Martedì 11 Settembre 2018, 10:52
La testimonianza più alta e sofferta del travaglio morale e spirituale di Oscar Wilde è il De profundis, lunga lettera indirizzata a Bosie e pubblicata postuma. Meditazione densa e sincera, autoanalisi spietata e appassionata di una vita spesa, fino al giorno dello scandalo, nell'ostentata latria della voluttà e della trasgressione.

L'autore traduce mirabilmente sulla carta, consegnandosi ai posteri, inquietudini e cedimenti, rimorsi e rimpianti. Ma non si autoassolve, pronto a espiare per purificarsi e redimersi: «Mi sono rovinato con le mie mani La via del carcere, con le sue privazioni e restrizioni senza fine, provoca in noi la ribellione. E la cosa più terribile non è il fatto che c'infranga il cuore (i cuori esistono per andare in frantumi), bensì che li trasformi in dura pietra. Ma il ribelle non può ricevere la grazia nella vita, come nell'arte, lo stato di ribellione chiude le vie dell'anima e allontana le brezze celesti».

La mattina del 29 maggio 1897 Oscar lasciò il carcere di Reading e si trasferì a Bloomsburry, in casa di amici, che lo accolsero come la vittima di un destino che lo aveva soverchiamente provato. Fece una lunga, accurata toilette, si cambiò d'abito, mise il fiore all'occhiello e tornò ad essere, almeno in apparenza, l'esteta-dandy di un tempo. Era completamente al verde e ciò rese necessaria una colletta. Al suo futuro provvederà, invece, Constance con un vitalizio mensile di centocinquanta sterline, che s'impegnerà a versare a condizione che il marito le conceda la separazione e non rivendichi diritti sui figli. Non solo. Una clausola morale lo vincolava almeno formalmente a non frequentare più quegli ambienti che lo avevano traviato e socialmente distrutto.
Wilde non muoverà obiezioni, accetterà in blocco il provvido e severo accordo, anche perché non aveva più le forze né l'autorità per negoziarlo. Era ormai alla mercé di tutti e l'ostracismo dell'establishment, la disistima dell'opinione pubblica (quella stessa che prima dello scandalo ne aveva fatto il proprio idolo) gl'interdirono le vecchie abitudini. Non sarebbe più stato il centro di quel firmamento mondano e intellettuale che con tanta caustica verve e smagliante acume aveva animato.

Il processo e il carcere l'avevano crudelmente segnato, avevacapito e s'era pentito, ma a Douglas e alle equivoche amicizie coltivate per lustri non se la sentiva di rinunciare. Se in Inghilterra e a Londra gli sarebbe stato impossibile frequentare quei ragazzi di vita che avevano fatto scempio della sua e recuperare con nuova estasi la felicità perduta, fra le Braccia di Bosie, in Francia, sotto le mentite spoglie di Sebastian Melmoth, nessuno si sarebbe accorto di lui. Si stabilì a Berneval-sur-mer, sulla costa normanna, in una disadorna e polverosa pensioncina.

Riprese i contatti epistolari con Alfred, che gli chiedeva con insistenza d'incontrarlo. Finché poté rifiutò, poi cedette. «Dobbiamo vederci al più presto. Se non c'incontriamo, penso che mi ucciderò. Ma non qui. Berneval, per me, è diventato orribile».
Si rividero a Rouen, all'Hôtel de la Poste, il 28 agosto. Versarono entrambi copiose lacrime, giurandosi eterno amore: non si sarebbero più lasciati, ora che il destino li aveva fatti ritrovare. Per festeggiare la riconciliazione, decisero di andare in Italia. Una luna di miele nel Sud: Napoli, Posillipo, Capri.
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