Ciò non impedì che la loro amicizia che sembrava così vividamente temprata finì con l'incrinarsi. Ma i due superuomini - uno, Federico, il condottiero più agguerrito e temuto del Vecchio Continente e il nume tutelare dell'intelligenzia europea - non erano destinati a un sodalizio longevo. Se nei primi tempi tutto filò liscio, per i loro rapporti, anche intimi, i più inconfessabili, irrimediabilmente e traumaticamente si guastarono.
All'entusiastica ammirazione subentrò un odio implacabile. Ogni pretesto era buono per litigare. E se non vennero mai alle mani fu perché il galateo, in una corte dove l'etichetta era di rigore, è un deprecabile e imperdonabile sfogo. Pomo della discordia le lodi a un matematico che Voltaire non condivideva. François-Marie per sostenere le sue buone ragioni vergò un libello, che lesse personalmente al monarca. Questi ci rise su, ma ne vietò perentoriamente la pubblicazione.
Ciò nonostante il filosofo, forse con incauta precipitazione, l'aveva consegnato all'editore. E questo il sovrano, ad onta della più pindariche lodi e delle più infatiche attestazioni di stima, montò su tutte le furie. E il suo illustre ospite fece quello che ognuno di noi avrebbe fatto: fuggì.
Leggiamo nell'Italia del Settecento: «Sebbene François-Marie avesse già varcato i confini della Prussia, gli agenti del prepotente re lo raggiunsero e lo tennero prigioniero sotto l'accusa di avere rubato il manoscritto di un poema composto per Federico. In realtà era andato perduto con il baule che lo conteneva. Un editore se ne impadronì e lo stampò senza permesso. Ne seguì un litigio da lavandaie. Il re s'infuriò con Voltaire che s'infuriò con l'editore e lo prese a schiaffi. Alla fine potè riprendere il viaggio. Ma quando si presentò alla frontiera, seppe che la Francia lo aveva bandito da Parigi. Gli eventi avevano rimediato alle sue debolezze restituendolo alla vocazione di paladino dell'anticonformismo.
Fu, quella di Potsdam, un'esperienza esemplare. Era facile nel Settecento, e non solo nel Settecento, proclamarli sovrani illuminati. Imperavano la volontà di potenza e la Ragion di Stato, e sul comodino i sovrani più aperti, a parole, potevano anche tenere i Vangeli e la Vita di Cristo, ma leggevano Machiavelli, e facevano dei suoi spietati precetti il breviario dei loro regimi.
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