Chissà se siamo più in balia di noi stessi o degli eventi

di Roberto Gervaso
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Martedì 2 Ottobre 2018, 09:48
Il 10 aprile dell'anno successivo Scribner's Son pubblicò Il grande Gatsby. Il suo successo sia di pubblico che di critica fu strepitoso, oltre ogni aspettativa. Scott non ne aveva mai dubitato, ma se lo sarebbe goduto di più se la donna che aveva al fianco non fosse diventata così eccentrica. E non solo perché un altro uomo era entrato nella sua vita, per subito uscirne. Non era più lei. La maschietta di Montgomery ma anche dei primi anni newyorkesi, era un'anima in pena, una creatura problematica e indecifrabile. Passava da stati di cupo mutismo a esplosioni di sconcertante loquacità e stranezza. Come quando, al casino di Juan-Le-Pins, per fortuna quasi vuoto, si alzò dalla sedia, sollevò la gonna fino al pube e si mise a ballare. Danzava scriverà uno degli amici presenti all'estemporaneo e imbarazzante show soltanto per se stessa, non guardava né a destra né a sinistra, né si accorgeva di sguardi altrui. Non vedeva nessuno tranne Scott. Turbinò in una serie incredibile di scivoloni non lo dimenticherò mai. Eravamo come incantati. Aveva una sconvolgente dignità naturale. Era così interamente avvinta da se stessa, così presa dalla sua danza.

Scott non credeva ai suoi occhi. Quella esibizione di Zelda mai se la sarebbe aspettata. Della moglie conosceva e accettava le bizzarrie, ma stavolta lei aveva passato il segno Perché s'era comportata in quel modo? Cos'era avvenuto nella sua mente? Non riusciva a capirlo, ma doveva capirlo. E lo capirà presto. La moglie attraversava un brutto momento, era depressa. La causa? L'incantesimo spezzato? I rapporti sempre più difficili, i dissidi sempre più astiosi e frequenti? Quante volte scrive Kyra Stromberg infilava le sue cose nella valigia e la trascinava in strada. Se le veniva sonno, andava a letto, ma la valigia restava fuori. Si sapeva sempre cos'era accaduto durante la notte. Era la valigia a rivelare i rapporti dei Fitzgerald.
Com'erano lontani i bei tempi quando si amavano, si divertivano nella città che avevano scelto come ribalda dei loro exploit e delle loro conquiste sociali, dei successi letterari di lui che si riverberavano su di lei, rendendola orgogliosa di un uomo che considerava un genio. Era appena ieri, ma sembrava un'eternità. Tutto dunque era passato così in fretta. Tutto s'era impietosamente consumato.
Scott ne parlò con gli amici e con Hemingway, atletico, anticonformista, allergico alla mondanità, tanto diverso da lui. A Ernest Zelda non piaceva, e a lei non piaceva lui. Se non si detestavano, poco ci mancava. Per lo scrittore dell'Illinois, la moglie dell'amico era una squilibrata che avrebbe potuto rovinare Scott se egli non se ne fosse al più presto liberato. Zelda vedeva in Hemingway un macho da cui stare alla larga, da tenere a bada. Forse, questa reciproca disistima, questa mal simulata avversione fu la causa, o una delle cause, della rottura fra Ernest e Scott, che aveva presentato l'amico al proprio editore.
Per Fitzgerald, che un giorno scriverà Hemingway offrirebbe sempre il suo aiuto a un uomo che si trova un gradino sopra di lui, sarà la fine di una consuetudine che egli avrebbe volentieri trasformato in sodalizio umano e letterario. Sarà un'amara delusione, ma Scott non serberà rancore. Annoterà: Gli ho voluto bene davvero ma i froci hanno rovinato tutto. Quali froci? Ernest, più cinico, nel 1932, scriverà: È la grande tragedia di un ingegno della nostra generazione maledetta. Sì, una generazione maledetta, che visse anni straordinari e irripetibili: i roaring twenties, e anni di angoscioso smarrimento, dopo la crisi del 1929, scatenato da quel giovedì nero, alla Borsa di Wall Street, che suggello, con la drammaticità di un'Apocalisse, la fine del mondo, spensierato e gaudente. Un mondo che Fitzgerald capì e raccontò come nessuno.
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