Il potere assoluto non sarà mai illuminato

di Roberto Gervaso
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Giovedì 5 Luglio 2018, 07:55
Promosso, con la giovane età di Nerone, a pedagogo e consigliere, da mentore a ministro, Seneca capì subito la sua funzione e il suo ruolo: mediare fra la Corte e il Senato, barcamenandosi fra questo e quella, cercando di conciliare le istanze spesso contraddittorie dell'uno e dell'altra, componendone i fatali dissidi. Impresa non facile ché la Curia, pur svuotata di ogni autorità, era gelosissima delle proprie ormai vane prerogative, in contrasto con quelle del sovrano assertore di un principato sempre più dispotico.

Una diarchia, come la vagheggiava Seneca, non era realizzabile. Le guerre civili e il caos che ne era seguito, avevano aperto la strada alla signoria augustea, degenerata con Caligola, e più tardi con Domiziano, in una tirannia eccentrica e brutale. Nessuna forza di collegialità, né di cooperazione, sarebbe, insomma, stata possibile anche se all'inizio fra Curia e Corte, un certo dialogo, pur se stentato, Seneca riuscì ad avviarlo.

Se il filosofo ebbe il torto di illudersi della disponibilità del sovrano a trattare con la sempre meno augusta Assemblea, le cui nostalgie repubblicane la rendevano sospetta, ebbe il merito di non porre mai in discussione il principato. Lo accetta dice Lana come una realtà di fatto, dalla quale non si può e non conviene tornare indietro. Evidentissima, invece, in Seneca, l'intenzione di orientarlo in una direzione che consenta all'intellettuale di collaborare al reggimento del genere umano.

Se non la migliore, la forma di governo voluta da Ottaviano è, per il filoso iberico naturalizzato romano il minore dei mali. La libertà repubblicana e il dominio della legge, i supremi ideali della Roma di Catone, sono decaduti. O, comunque, dopo le Idi di marzo, nessuno è più disposto a battersi per loro. Ripristinarli, oltre che anacronistico, sarebbe pericoloso.

Seneca se ne rende conto e duttilmente s'adegua a una realtà che, se non può mutare, può, anzi, deve convogliare nell'alveo più propizio. Ciò che conta è che il monarca, come reclamano gli stoici, sia giusto e garantisca i sudditi contro ogni arbitrio e abuso. Lucio Anneo si adoperò affinché l'imperatore non sfuggisse a questo dovere.

Il principe scrive Seneca - è il principe grazie al quale lo Stato rimane unito, è lo spirito vitale, che molte migliaia respirano, e che di per sé sarebbe un peso e una facile preda di altri, se venisse tolta quell'anima all'Impero. Quando il re è sano e salvo (il passo è tratto da Virgilio), tutti hanno un solo pensiero. Perduto il re, rompono il patto di fedeltà. Questa perdita sarà la rovina della pace romana, distruggerà la fortuna di un così grande popolo. Il quale sarà lontano da questo grande pericolo finché saprà sopportare le briglie. Se le spezzerà o, per qualche caso, esso fosse venuto meno, non se le lascerà rimettere. L'unità e la connessione del più grande Impero si disperderanno in molte parti, e quest'Urbe, cessando di obbedire al principe, cesserà anche di comandare al mondo.

Il sovrano è dunque una specie di Dio in terra e il suo immenso potere è limitato solo dalla personale bontà e clemenza. Come l'Eterno dà e sovrintende all'ordine cosmico, così l'imperatore lo assicura ai popoli.
Nel principe l'uomo quasi si sposa con Dio, di cui diventa il rappresentante in terra, depositario dei suoi arcani, esecutore dei suoi disegni.

La monarchia perde così quei connotati costituzionali, imbevuti di religione, che Augusto sulla carta le aveva riconosciuto, per trasformarsi in una vera e propria teocrazia, temperata dalla longanimità del principe.
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