Muratore ucciso in strada a Rebibbia: «Punito per una denuncia». Presi i killer di Mihai Stefan

Aveva fatto il nome di due rom che l'avevano picchiato

Muratore ucciso in strada a Rebibbia: «Punito per una denuncia». Presi i killer di Mihai Stefan
di Alessia Marani
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Mercoledì 7 Febbraio 2024, 06:36 - Ultimo aggiornamento: 8 Febbraio, 10:24

Tutte le domeniche Mihai Stefan Roman, muratore romeno di 33 anni, portava i suoi due gemellini a pescare. Era la sua passione e amava condividerla con i suoi bambini. Poi la sera dell'8 febbraio del 2023 con in mano il dolce da portare a sua moglie per la festa della donna è stato freddato con due colpi di Glock 9x21 da due killer in motocicletta. Si è accasciato al suolo, davanti a un minimarket di via Selmi, a Rebibbia, e a casa non ci è tornato mai più. Ora i suoi presunti assassini, tre uomini (una quarta persona è indagata) sono stati arrestati dai carabinieri di Montesacro.

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Il movente? Tanto futile quanto agghiacciante: il pestaggio subito dal 33enne l'estate precedente da parte dei "rom di Ponte Mammolo" che lui decise di denunciare alle forze dell'ordine. Aveva piccoli precedenti per reati contro il patrimonio Mihai e spesso, dopo il lavoro, si fermava a bere una birra con gli amici. Qualche volta diventava pure scontroso, ma era un buon papà. A giugno era intervenuto in un banale litigio tra uno dei suoi bambini e il figlio di uno dei rom e, involontariamente, aveva colpito il ragazzino facendo esplodere l'ira di tutta la famiglia. Fu massacrato di botte e minacciato ma a luglio andò comunque in commissariato a effettuare il riconoscimento fotografico. Uno "sgarro" che, secondo il clan, meritava di essere punito addirittura con la morte.
«Quello era uno che ha fatto carcerare mio fratello e ha pagato», sentenziava a corpo ancora caldo Manuel Djema Saleh, 27 anni, ritenuto l'esecutore materiale - un trafficante d'armi «altamente pericoloso», come lo descrive il gip - chiedendo a un amico di far sparire caschi integrali e abiti indossati durante l'esecuzione, nonché il "ferro". I militari del nucleo operativo della compagnia di Montesacro coordinati dalla Procura, hanno ricostruito minuziosamente ruoli e piano omicidiario. A guidare la Yamaha R6 nera con i cerchioni giallo fluo, c'era Simone Nicoli, un 37enne con precedenti, ingaggiato per la sua capacità di guidare mezzi di grossa cilindrata e dileguarsi velocemente nel traffico. Perché tutto andasse liscio, era stato cooptato anche Alessandro De Matteis, 31 anni, incensurato, inviato in auto come "specchiettista" ad assicurarsi della presenza di Mihai, dando così il via alla mattanza. Per la "cortesia" sarebbe stato compensato con 500 euro, 5mila il cachet per il pilota.

LE INTERCETTAZIONI

Mihai aveva confidato a un amico di avere litigato con soggetti di nazionalità bosniaca che non conosceva e «che abitavano dove ci sono le case occupate dai rom».
Alla moglie Ramona quell'estate arrivò più di una telefonata dalle donne del clan: «Tieni sotto controllo tuo marito.. che vuole fare... Azizo (il fratello di Manuel, ndr) tiene famiglia». Ma la svolta nelle indagini arriva quando i carabinieri, ad aprile, fermano sul Gra un romeno di 30 anni a cui Manuel aveva ordinato di portare un revolver (usato per una rapina) in un laboratorio clandestino di armi modificate ad Ardea. Nel suo telefono viene trovata una foto di Mihai col volto tumefatto e a inviargliela era stato Manuel. Nonostante le invettive e le minacce di morte fatte arrivare anche a lui a Regina Coeli attraverso altri detenuti («c'è chi una coltellata pe' 400 euro gliela dà...»), lo straniero ammette di avere preso la busta con i caschi, la tuta e la pistola. Lo aveva chiamato subito dopo dicendogli di andare a casa della compagna a Tor Lupara perché avevano litigato. Invece, una volta arrivato, gli dice: «È successo un casino, domani leggi i giornali». Dall'insediamento di Ponte Mammolo Manuel si muoveva e organizzava affari come un boss, ispirato da Gomorra, fotografandosi con in pugno armi, come fosse onnipotente. Intercettato dice: «Ho compiuto già altri omicidi». Dichiarazioni su cui sono in corso approfondimenti. Nei mesi successivi al delitto il "clan" cerca di costruire un alibi per lui che si arrabbia quando scopre che i proiettili (poi ritrovati dai carabinieri) sono stati gettati nelle fogne («Vicino casa li hai buttati!»). Teme i 20 anni di carcere, ma è il cognato ad avere le idee più chiare: «C'è solo uno sbaglio.. lo sanno in troppi! E basta...».

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