La vera storia del romanesco (che non è solo volgarità)

La vera storia del romanesco (che non è solo volgarità)
di Pietro Piovani
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Lunedì 3 Maggio 2021, 00:37 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 04:03

Una delle primissime testimonianze della lingua romana si trova nella basilica di San Clemente, e contiene già una parolaccia: «Fili dele pute!» grida un uomo ritratto in un affresco dell’XI secolo. Il turpiloquio sembrerebbe dunque il segno tipico del dialetto capitolino sin dalle origini, un modo di esprimersi sboccato che parte dal Medio Evo, passa per i sonetti di Belli e arriva fino a Maurizio Battista. Ma l’equazione tra romanità e volgarità è un luogo comune che andrebbe rimesso seriamente in discussione. Una prima idea di quanto sia complessa la natura del parlare di Roma si può ricavare dal prezioso libretto di recente pubblicazione Le mille lingue di Roma, trascrizione di una lezione che il grande linguista Luca Serianni ha tenuto all'interno di un centro commerciale (e già il fatto che uno dei maggiori studiosi italiani abbia discusso di linguistica con i frequentatori di un grande magazzino dimostra la vitalità culturale di questa città).

Oltre a ricordarci che il turpiloquio non è certo un’esclusiva della Capitale, Serianni evidenzia che una caratteristica del romanesco è la sua varietà di forme, parole e stili che si sono accumulati nel corso dei secoli. In origine era il latino, che poi è diventato un dialetto meridionale, nel Cinquecento si è trasformato in una variante plebea del fiorentino, con l’unità d’Italia si è imborghesito e ha incluso in sé le parlate di tutto il Paese, infine in epoca recente ha saputo assimilare le lingue degli immigrati. Così si è arrivati al romanesco di oggi, idioma dalle tante corde espressive: l’oscenità sì, ma anche il lirismo, il sentimento, e qualche volta una certa finezza.

pietro.piovani@ilmessaggero.it

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