Café de Paris e altri beni, condannati 14 esponenti del clan Alvaro

Café de Paris e altri beni, condannati 14 esponenti del clan Alvaro
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Mercoledì 9 Aprile 2014, 17:34 - Ultimo aggiornamento: 10 Aprile, 12:52
Erano accusati di essere entrati in possesso, tra gli altri, dello storico Caf de Paris. Il simbolo della dolce vita, della grande bellezza di via Veneto. La conferma che la grande criminalità organizzata ha scelto Roma per fare business mettendo le mani su bar ed esercizi commerciali che hanno fatto la storia della Capitale. Un gruppo criminale, quello degli Alvaro, a cui il tribunale di Roma ha inflitto 14 condanne per un totale di oltre quarant'anni di carcere. Ma proprio sull'acquisizione e gestione dello storico bar di via Veneto il Tribunale ha chiesto ulteriori approfondimenti trasmettendo gli atti al pm.



Alla sbarra erano finiti in 24: oggi la Settima sezione penale ha riconosciuto colpevoli tra gli altri Vincenzo Alvaro, ritenuto dagli inquirenti il capo del cosca, a cui ha inflitto una condanna a sette anni di reclusione. Il tribunale ha assolto Alvaro, con la formula per non aver commesso il fatto, sul capo di imputazione che riguardava proprio il Caffè de Paris. Quattro anni, invece, è la condanna stabilita nei confronti di Grazia Palamara, moglie di Alvaro, mentre Damiano Villari, anch'egli ai vertici del gruppo, è stato condannato a quattro anni e sei mesi. Altre condanne hanno riguardato componenti vari della cosca: Vincenzo Adami (2 anni); Francesco Almpi (2 anni e 4 mesi); Antonio Lupoi (2 anni); Giuseppe Lupoi (3 anni); Maria Concetta Palamara (2 anni). E in merito 'all'affairè Caffè de Paris, il presidente del collegio Roberto Polella ha deciso, inoltre, la restituzione degli atti al pubblico ministero per la determinazione del caso, «essendo il fatto - è detto nel dispositivo - emerso dal dibattimento diverso da quello originariamente contestato» ad una serie di imputati, tra cui Damiano Villari.



Al centro della vicenda, decine di locali (tra bar e ristoranti) che esponenti della cosca decisero di acquistare a Roma affidandone poi la gestione a propri familiari o a soggetti di particolare fiducia cui vengono intestati i beni «pure in mancanza di disponibilità economica», o di «specifica competenza professionale». «Il contesto in cui gli imputati hanno compiuto il reato di trasferimento fraudolento di beni per eludere la normativa in materia di misure di prevenzione - ha detto il pm Francesco Minisci nel corso della sua requisitoria - è di elevata mafiosità».








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