Rieti, il messaggio del vescovo Pompili
a un anno dall'insediamento:
«Serve marciare insieme»

Il vescovo Pompili con Papa Francesco
di Alessandra Lancia
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Mercoledì 7 Settembre 2016, 15:12
RIETI -  Il 5 settembre è stato un anno, ma con la voragine di lutti e distruzione aperta nel cuore della montagna reatina dal terremoto del 24 agosto sarebbe forse meglio parlare di un'era fa. E così l'anniversario dell'arrivo in città di don Domenico Pompili si presta anche a prima una valutazione sul prima e il dopo la tragedia di Amatrice e Accumoli. E soprattutto sull'adesso: adesso che si fa?

IL SISMA
«E' un momento drammatico che richiede molta lucidità dice Pompili al Messaggero Il primo pensiero è ai morti, alle tragedie delle famiglie: a chi è sopravvissuto ai figli o ai genitori servirà una lunga fase di accompagnamento. Come Chiesa locale dobbiamo farci carico di questo processo: lo stile che ho chiesto a sacerdoti e volontari è quello della prossimità. Non dobbiamo pensare a cosa fare ma solo a stare accanto alle persone, ad esserci, per tutto il tempo che servirà per provare ad elaborare lutti così grandi». Ma già preme la quotidianità del dopo, con la gente divisa tra chi vuole restare nei paesi distrutti e chi no: «Io avevo suggerito l'opzione delle case in affitto, per dare alle famiglie condizioni di vita più normali. E in mezzo a tanta distruzione per cominciare a reimmettere risorse sul territorio».
Il terremoto di Amatrice e il successivo collasso della viabilità hanno mostrato al Paese quanto fragili fossero le infrastrutture di questa Italia di mezzo.

LE CRITICITA'
Anche lei, in questo anno a Rieti, ha insistito molto sul capitolo strade e collegamenti. «Impossibile non farlo, viste le condizioni di Rieti anche nella normalità. Ora la speranza è che, nel dramma, si possa cogliere qualche opportunità per il territorio: penso alla viabilità ma anche più in generale a nuove misure di accompagnamento allo sviluppo».
E' un tasto su cui pure ha insistito molto: con gli amministratori locali, con gli industriali, con le tante realtà sociali e culturali incontrate in questo lungo anno passato a conoscere Rieti. Al punto che c'è chi si è chiesto se fosse un vescovo o una sorta di super-sindaco: «Io non ho fatto il fustigatore. Da vescovo ho trovato un territorio in attesa, con tante speranze di sviluppo disattese e con tante energie da risvegliare. Rieti è un territorio di confine, con le sue fragilità ma anche con le sue ricchezze: la sfida è canalizzare gli sforzi in un'unica direzione, è marciare insieme. C'è tanto capitale umano su cui contare». Da venerdì a domenica riunirà la chiesa reatina a convegno a Contigliano per impostare quello che una volta si chiamava il piano pastorale.

IL FUTURO
Il terremoto cambierà anche l'agenda della chiesa reatina? «Per quell'incontro avevo indicato tre verbi, tutti di drammatica urgenza anche in questo quadro: camminare, costruire e confessare la speranza. Camminare ci aiuterà a ricostruire i legami anche fisici sul territorio, costruire, anzi ricostruire specie dopo un terremoto, è l'invito a non vivere di rendita ma sapere che si può e si deve ricominciare da capo. Confessare la speranza di una rinascita è quello che più serve tra tanta disperazione. Più in generale quello su cui rifletteremo è che anche nella trasmissione della fede non possiamo vivere di rendita. E' la genesi della vita, fatta di continue ripartenze. Chi si ferma perde l'incontro con la contemporaneità».

LA DENUNCIA
Una frase della sua omelia quel «uccidono le opere dell'uomo e non Dio» ha suscitato molto scalpore. La ripeterebbe? «Sì dice Pompili direi esattamente quello che ho detto, specie dopo aver girato in lungo e in largo il territorio e aver visto quello che ho visto. Ci sono case che hanno retto e altre no, a riprova che i criteri di costruzione contano. Questo non toglie nulla alla complessità davanti alla quale ci pone un terremoto». C'è chi le ha rimproverato un piglio molto terreno e molto poco teologico: «E sbagliano. La mia prospettiva era e resta la parola di Dio, il mio obiettivo evitare quella sorta di deresponsabilizzazione strisciante di fronte a una tragedia tanto grande. E poi, nel passaggio finale ho evocato l'alba e il ritorno della speranza: più prospettiva cristiana di questa».
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