La fabbrica dei leader e i cannibali della sinistra

di Alessandro Campi
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Mercoledì 25 Febbraio 2015, 23:32 - Ultimo aggiornamento: 26 Febbraio, 00:15
La sinistra italiana è alla spasmodica ricerca di un leader. Ma non c’è già Renzi a guidare con autorevolezza quest’area politica? Diciamo, a costo di giocare con le parole, che è in realtà la sinistra-sinistra che sta cercando una guida che possa sfidare la sinistra-centro (una sinistra-destra, a ben vedere) incarnata dall’attuale presidente del Consiglio: una forza più bulimica che trasversale, la cui prestanza elettorale è solo apparente, in ogni caso momentanea.

Lasciate che emerga un nuovo capopopolo, espressione della vera e nobile sinistra, e vedrete come si sgonfierà colui che rappresenta una sinistra che è soltanto falsa, immaginaria e illusoria. Ha un che di messianico (e di politicamente disperante) questa ricerca a sinistra – ormai ventennale – dell’uomo nuovo in grado di interpretarne l’essenza e lo spirito profondo rispetto a qualunque deviazione o contaminazione o annuncio di crisi o tentativo di trasformazione.

Una ricerca di purezza ideologica o di autenticità esistenziale che ha prodotto, nel recente passato, vistosi arretramenti elettorali e la fuga in massa di militanti o iscritti, mano a mano che il leader del momento si scopriva non all’altezza della missione salvifica che gli era stata affidata. Senza contare il tempo perso ad inseguire i capi delle sinistre eccentriche del mondo – ieri Lula e Zapatero, oggi Pablo Iglesias e Alexis Tsipras – con l’idea di importarne in Italia lo stile vincente e le parole d’ordine.

La conquista del Partito democratico ad opera di Matteo Renzi, dopo un’aspra e proprio per questo salutare contesa interna, sembrava aver offerto alla sinistra italiana, nelle sue diverse componenti, una soluzione finalmente stabile e una prospettiva finalmente vincente. Nel segno dell’autarchia politico-culturale, senza più esotismi da inseguire e dunque nel rispetto di quella che è stata la sua complessa storia ideale nel corso dei decenni.



E soprattutto nel segno di quel rinnovamento – negli uomini, nelle idee e nelle strategie – che in passato era stato tante volte invocato come necessario dinnanzi alle trasformazioni radicali che hanno investito ovunque nel mondo la sfera politica.

Ma giusto il tempo di vedere emergere la sua stella e subito ci si è chiesti se per caso la sua novità non fosse troppo radicale, dunque impossibile da assecondare o condividere anche da coloro che pure appartengono al suo stesso campo. Magari essa risulta gradita alla grande maggioranza degli elettori, ma viene considerata politicamente spuria o ideologicamente aliena da coloro che si ergono a custodi della tradizione, a interpreti autorizzati delle battaglie e delle formule d’azione che rendono riconoscibile la sinistra autentica dinnanzi alle sue contraffazioni. Non sono più i massimalisti che si contrappongono ai riformisti, secondo un’antica divisione, ma i poliziotti ai falsari.



Ecco dunque ripartire la caccia all’uomo del destino chiamato questa volta non solo a rinvigorire la sinistra, restituendola alla sua matrice originaria e salvandola da possibili degenerazioni o mistificazioni, ma anche a scacciare l’usurpatore o quanto meno a ridurne le ambizioni. A questo ruolo sembrerebbe vocato Maurizio Landini da un crescendo politico-mediatico che ormai lo presenta, a dispetto delle sue sempre più flebili smentite, come leader naturale e come unico possibile aggregatore di quella che, non andando più di moda i partiti, anche il diretto interessato preferisce chiamare una “coalizione sociale”.



Pezzi sparsi della società civile militante, del sindacato di lotta, dei movimenti collettivi di protesta, del radicalismo ideologico tardo o post-comunista, della dissidenza anti-renziana all’interno dello stesso Pd, che sotto la guida del segretario della Fiom-Cgil potrebbero finalmente rappresentare – assumendo la difesa del lavoro e la critica al neoliberismo come temi qualificanti – un’alternativa credibile e vincente agli equivoci del renzismo.



Ma a questo stesso ruolo sembrerebbe essersi autocandidata anche Laura Boldrini, a sua volta convinta che esista una vasta area di sinistra, insofferente nei confronti della piega oggettivamente berlusconiana che il Pd avrebbe preso, che altro non aspetta che qualcuno in grado di assumerne autorevolmente la guida. Nella sua idea, la battaglia per ridare voce alla vera sinistra dovrebbe vertere sulla denuncia dei modi autoritari e solitari, sprezzanti verso il Parlamento e la Costituzione, dunque pericolosi in prospettiva per la democrazia, che caratterizzano lo stile di governo di Renzi.



Ma se questo è il quadro della lotta a sinistra (e per la vera sinistra) che starebbe per aprirsi come si possono distinguere le ragioni politico-ideali dai velleitarismi personali e dai calcoli ingenuamente errati? Un sindacalista che scende in politica dopo aver negato sino alla noia di volerlo fare e un Presidente della Camera che usa il suo scranno per ritagliarsi una futura carriera da leader sono un copione già visto nella storia italiana recente. Così come non rappresentò una grande novità un magistrato – parliamo di Antonio Ingroia – che per un momento, entrando in politica, parve a sua volta l’uomo dei sogni della sinistra nazionale ideologicamente dura e pura.



Il sospetto che i primi due possano seguire la parabola di quest’ultimo è in effetti forte. Anche perché tra annunciare una leadership, sostenuta da qualche titolo di giornale e da frequenti apparizioni televisive, e vederla affermare nello scontro politico c’è ancora un bella differenza. E questa differenza la fanno, implacabili come sempre, gli elettori.



Senza contare la dura realtà di un universo politico-elettorale che si tende ad accreditare come potenzialmente vasto, ma che ad ogni recente prova alle urne si è dimostrato se non residuale quanto meno modesto: forte più nella rappresentazione mediatica e nelle speranze di chi aspira a guidarlo che nella dialettica sociale e nelle attese di chi dovrebbe votarlo.



C’è in realtà l’esempio europeo - dalla Grecia alla Spagna - che sembrerebbe attestare il rifiorire, su basi di massa e grazie a leadership altamente carismatiche, di una sinistra culturalmente antagonista e contestatrice dell’ordine politico esistente. Ma alla banale osservazione che gli esperimenti politici non si replicano come in laboratorio, bisogna aggiungerne un’altra egualmente scontata: in Italia l’area del dissenso sociale e della protesta antisistema si è già elettoralmente cristallizzata intorno al M5S, peraltro con modalità assai innovative – dal punto di vista organizzativo e della comunicazione – rispetto a quelle di una certa sinistra radicale ancora legata a schemi ideologici e a modalità di lotta novecenteschi.



Una sinistra la cui vocazione storicamente settaria, la cui tendenza a macinare leader e a condurre battaglie di retroguardia, sembra davvero l’ultimo dei problemi di cui Renzi deve in questo momento preoccuparsi.