La crisi dinastica/La successione saudita accende la guerra del petrolio

di Giulio Sapelli
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- Ultimo aggiornamento: 5 Gennaio, 00:05
Non v’è dubbio che le condanne a morte eseguite nei giorni scorsi in Arabia Saudita siano un tentativo per nascondere i profondi problemi in cui è immersa la dinastia saudita. La crisi interna alla monarchia rischia così di trasformarsi nella classica scintilla che dà fuoco a una più vasta prateria. La dinastia dei Saud attraversa infatti un periodo di transizione difficile. Da un lato sta entrando in crisi il complicato regime di successione poligamico a discendenza tra fratelli per cui è il meno vecchio rispetto al regnante a essere preposto quale successore; una tradizione che oggi è confusa dal fatto che l’attuale re sembra più incline a favorire il proprio figlio a svantaggio del primo fratello minore e questa novità accresce enormemente i motivi di tensione, che fatalmente scaricano sull’apparato militare il compito di sedare la situazione interna aggravando però tutti i contrasti con l’esterno, così tentando d’indebolire le opposizioni al clan dominante patrilineare.

Ma tutto ciò amplifica i conflitti in corso e di fatto internazionalizza ancor più lo scisma islamico. Salman bin Abdelaziz al Saud, nuovo re dell’Arabia Saudita dal 6 gennaio 2015, dopo la morte di Re Abdullah, fa parte del resto di quel potente gruppo chiamato «I sette Sudairi», formato da tutti i figli che il capostipite Abdulaziz ibn Saud ebbe con Haassa al Sudairi, una principessa proveniente da un potente clan della regione centrale di Najd, una grande famiglia che ha sempre sviluppato un forte spirito di potenza unitaria.

Re Salman si trova ora a dover affrontare una situazione regionale e internazionale molto complessa e foriera di minacce per la stabilità del Regno. In primo luogo due situazioni molto difficili ai suoi confini meridionale e nord-orientale: a sud lo Yemen sta attraversando una grave crisi politica che potrebbe portare alla presa del potere dei ribelli sciiti Houthi, appoggiati dall’Iran, il grande nemico dei sauditi.

A nord-est l’Iraq, d’altro canto, è controllato per circa un terzo del suo territorio dai miliziani del Daesh, contro cui l’Arabia Saudita ha cominciato una campagna aerea militare insieme agli Stati Uniti e agli altri paesi della coalizione, disvelando la contraddizione profonda in cui il Regno si dibatte, perché la vittoria dell’esercito iracheno rafforza di fatto una potenza, l’Iraq, che oggi a differenza del passato diverrà, una volta sconfitto il Daesh, alleata dell’Iran sciita, sconvolgendo l’equilibrio nel Golfo e in tutto l’Heartland, ossia nelle terre dalla Turchia all’India.
Non a caso l’Arabia Saudita ha tentato in tutti i modi di chiamare a sé, attraverso azioni militari congiunte, la potenza del Pakistan, anch’esso Stato a dominazione sunnita, ma l’intelligence americana e la pressione dello stesso Obama hanno sventato questa minaccia che avrebbe internazionalizzato sino ai confini dell’India la crisi del Golfo, con conseguenze imprevedibili.

È noto quale sia stata e sia l’arma principale, tuttavia, di questo tentativo di fermare l’ascesa della potenza dell’Iran, nazione sciita, ma soprattutto rivoluzionaria come orientamento internazionale, ossia con truppe combattenti al di fuori dei confini della madre patria e decine di martiri di altissimo livello esaltati nel loro sacrificio in terra irachena e siriana. E dunque, l’arma principale dei sauditi avrebbe dovuto essere la rottura del patto che ha retto l’Opec per più di due decenni, ossia il regolare congiuntamente l’offerta del petrolio, così da concordare un prezzo tra tutti i paesi produttori che ne fanno parte. L’Arabia Saudita ha preso, come è noto, una posizione oltranzista diretta invece ad aumentare le quote di produzione, in una situazione di prezzi calanti, sia dal punto di vista degli intermediari finanziari sia delle quantità fisiche, per via della recessione mondiale da cui ancora non si è usciti e che, anzi, si sta solo ora prepotentemente affacciando nei paesi emergenti.

L’obbiettivo saudita è far crollare i prezzi sino a impedire gli investimenti Usa nello shale gas e nello shale oil, così da non far conseguire al Nord America l’autosufficienza energetica e contrastare in tal modo l’imprevisto cambio di rotta americano nel sistema di equilibri di potenza del Golfo con l’alleanza di fatto stipulata con l’Iran attraverso l’accordo sul nucleare da poco chiuso a Vienna tra mille polemiche e mille ostacoli, tutti superati grazie all’intransigenza Usa e all’intelligenza politica dell’establishment iraniano.

Ma l’attacco saudita è rivolto anche contro la Russia, già indebolita dalle sanzioni economiche per la crisi ucraina e che vede nel crollo dei prezzi del petrolio una ulteriore difficoltà economica. I sauditi sperano in tal modo d’indebolire l’asse siriano-russo, non comprendendo che tale asse è indistruttibile pena la perdita del prestigio e dell’influenza russa nei mari caldi e che per i russi esso è vitale e irrinunciabile, soprattutto da quando i rapporti con Ankara sono diventati pessimi. I russi non possono cedere, seguendo in questo l’insegnamento di Evgenij Maksimovic Primakov, scomparso di recente, il più intelligente dei diplomatici mondiali dopo Kissinger (del quale non a caso era grande amico). Primakov, prima di morire, aveva benissimo compreso che l’unico modo per ridare alla Russia dignità internazionale era riprendere la strategia di un altro grande dell’era zarista: Aleksandr Michajlovic Gorcakov, ministro degli Esteri della Russia dal 1856 al 1882 e protagonista dell’espansione dell’impero russo in Asia Centrale.

Gorcakov riuscì a far annullare (dopo la sconfitta francese del 1870 nella guerra contro la Germania), le pesanti clausole imposte alla Russia dal Trattato di Parigi del 1856, per via della sconfitta subita dallo zarismo nella guerra di Crimea. In tal modo consentì al suo paese, grazie all’ottenuta neutralità dell’Austria, l’attacco della Russia all’Impero ottomano nel 1877. Putin persegue proprio quell’obbiettivo, che oggi si traduce nella stabilità dell’influenza russa nell’Asia Centrale ed è per questo che non può evitare il conflitto con Ankara.

Il «Grande gioco» è di nuovo iniziato e l’Arabia Saudita entra in esso nel peggiore dei modi e, se si vuole, anche in quello più infantile, ma non per questo meno spietato e pericoloso: uccidendo i suoi oppositori, a cominciare dai loro capi spirituali. I sauditi sperano in questo modo di indebolire l’ala riformista iraniana, di intensificare l’odio tra le fazioni, di soffocare i problemi interni sauditi attraverso una strategia di morte e di repressione che rischia di sconvolgere nuovamente oltre che lo scacchiere mediorientale anche i mercati delle materie prime.

 
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