L’anno che verrà/ Non c’è risposta ai problemi senza cambiare le vecchie parole

di Giuliano da Empoli
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Giovedì 31 Dicembre 2015, 00:00

Le parole sono importanti. Non c’è bisogno di essere un poeta o un predicatore per sapere che, quando sono scelte con cura, possono trasmettere ad una comunità il senso del proprio stare insieme e costituire un argine nei confronti del caos. Il problema della fase che stiamo vivendo è che le parole che abbiamo impiegato fin qui per dare un senso alla realtà che ci circonda non sono più adeguate. Mentre non esistono ancora termini nuovi, in grado di descrivere gli scenari che si aprono di fronte a noi. 
Prendiamo la guerra, parola tristemente tornata di attualità dopo gli attacchi terroristici di Parigi. Possiamo anche continuare a chiamarla così, la lotta contro il fanatismo islamico nella quale siamo ingaggiati su tutti i fronti, dall’Afghanistan alle periferie delle nostre grandi città. Ma è chiaro che non ha più nulla a che vedere con la guerra per come la conosciamo da secoli, con due eserciti contrapposti che si danno battaglia fino alla resa dell’uno o dell’altro. Come in guerra, ci sono i caduti, ma sono i frequentatori dei bar e dei concerti del venerdì sera, non i soldati sulla linea del fronte. 
Come in guerra c’è il nemico, ma non indossa uniformi ed è quasi sempre irriconoscibile, dissimulato tra la folla di un marciapiede. E il territorio che dobbiamo difendere non è tanto uno spazio fisico quanto uno stato mentale, fatto di libertà e di tolleranza. Vogliamo chiamarla guerra? 
Benissimo, ma è una forma di pigrizia che rischia di costarci cara, perché non dà conto né delle strategie, né degli obiettivi che possiamo ragionevolmente perseguire. 
In politica è la stessa cosa. Dopo le ultime elezioni in Francia e in Spagna è ancora più difficile illudersi che le vecchie categorie interpretative, e prima tra tutte quella che distingue la destra dalla sinistra, siano ancora adeguate per capire quello che sta accadendo. Vogliamo continuare a cullarci nel vecchio schema rassicurante, progressisti da una parte e conservatori dall’altra, le piadine e i cravattoni, il rosso e il nero? Ottimo, ma poi non lamentiamoci di non avere gli strumenti per capire i Trump e i Podemos, i Grilli e le Le Pen, cioè sostanzialmente tutti i movimenti che stanno ridefinendo i confini del gioco politico dai due lati dell'Atlantico. 
Perfino la parola più inquietante e vaga di tutte, la crisi, ha smesso di significare alcunché. In teoria dovrebbe indicare una fase particolare, una transizione con un inizio e una fine, preceduta e seguita dalla normalità. Ma davvero qualcuno pensa oggi che le cose stiano così? Che torneremo mai al piccolo mondo antico delle stagioni che si alternano col passare dei mesi e dei telegiornali della sera che racchiudono l'attualità? La crisi è solo il nome che diamo alla nostra incapacità di definire il nuovo che abbiamo sotto gli occhi. Non è fatto solo di problemi, il futuro ancora senza nome che abbiamo di fronte, ma anche di opportunità. È sbalorditivo quanto poco spazio trovino ancora sui mass media e in politica i grandi temi della biologia, della medicina e dell'informatica che stanno alterando l'essenza stessa dell'esperienza umana. Un po' come se fossimo tutti quel re di Francia che, il giorno della presa della Bastiglia, scrisse "rien", nulla da segnalare, sul suo diario quotidiano. Il miglior modo di prevedere il futuro è di costruirlo, dicono gli americani, sempre ottimisti. Qui in Europa siamo un po' più scettici. Ma uno sforzo d'immaginazione in più toccherà farlo anche noi, se non vogliamo fare la fine di quel bruco proverbiale che chiama fine del mondo ciò che il resto del mondo chiama farfalla.
 
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