Addio a Paolo Graldi, il giornalista che sapeva capire i lettori

Maestro di scrittura con un vocabolario sconfinato, sapeva come attirarti fino alla fine del pezzo

Paolo Graldi
di Massimo Martinelli
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Domenica 31 Dicembre 2023, 00:35 - Ultimo aggiornamento: 2 Gennaio, 00:05

La sostanza e la forma. Le notizie e la scrittura. Ma sarebbe meglio dire: lo stile. Quello di Paolo Graldi, inconfondibile: raccontare i fatti con una capacità di linguaggio rara per un giornalista. Una ricchezza lessicale, la sua, che altro non era che una delle manifestazioni della sua passione per l’estetica, che lui interpretava nella duplice accezione kantiana: intesa come scienza del bello e come capacità di percepire sensazioni emotive.
Capiva le sfumature con acume, con prontezza, con intelligenza.

Leggeva gli sguardi, interpretava il tremolio di un labbro, una frase lasciata a metà, un gesto accennato.

E ne faceva un ritratto più nitido di una fotografia.


Aveva uno strumento formidabile con il quale poteva fare la differenza con la stragrande maggioranza dei colleghi: sapeva maneggiare con maestria un patrimonio di vocaboli sconfinato. Sceglieva ogni verbo, ogni sostantivo con cura e, soprattutto, d’istinto, senza doverci pensare sopra. Fosse un articolo o un intervento pubblico, la prosa era sempre la stessa: efficace, originale, suggestiva. E raffinata. Non c’erano frasi fatte nel suo vocabolario. Semmai ne inventava di nuove. E neanche banalità: ad ogni riga dei suoi articoli c’era un concetto nuovo e il lettore andava avanti, come se ci fosse una calamita che lo attirava fino alla fine del pezzo. La stessa verve sapeva esprimerla - come descrive bene Mario Ajello in questa stessa pagina - nella vita di tutti i giorni. Qui l’ironia, il sarcasmo e il piacere per la battuta erano potenziati dagli stessi strumenti che Paolo Graldi utilizzava nel suo mestiere. E la sua frequentazione diventava un arricchimento. 

L’ho conosciuto da piccolo. Io, figlio di un suo collega; lui giornalista già affermato, che talvolta a quel collega che doveva correre per un servizio urgente, faceva la cortesia di badare ai figlioli, a me e a mio fratello. L’ho apprezzato appieno durante l’università, nella redazione del Corriere della Sera. Ero abusivo e curioso di sapere cos’era fare il giornalista.

Ritagliavo articoli di giornale per l’archivio che lui e gli altri cronisti di razza di una redazione di cronache italiane che all’epoca non aveva eguali (Antonio Padellaro, Andrea Purgatori, Paolo Menghini, Sandro Acciari, Pierluigi Franz, Marco Nese e altri ancora), segnavano con un tratto di penna. Ritagliavo, archiviavo e ascoltavo. E imparavo come si può lavorare divertendosi, perché vedevo giovani uomini che riuscivano a farlo con leggerezza. Negli anni successivi Paolo Graldi è stato il mio caporedattore in Rai, nella redazione di un fortunato format tv di Sergio Zavoli. Poi il mio direttore al Messaggero. E fino a ieri, non ha mai smesso di insegnarmi quanta forza possono avere le parole, se scelte con cura. 

Caro Paolo, grazie per avermi accompagnato fino a qui.

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