Il pentito Pugliese: «Romolo Di Silvio? Vero capo clan, non conveniva dirgli di no»

Il pentito Pugliese: «Romolo Di Silvio? Vero capo clan, non conveniva dirgli di no»
di Elena Ganelli
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Mercoledì 25 Gennaio 2023, 11:51

L'UDIENZA
Un vero capo al quale non si poteva dire di no, a meno di non dover pagare un prezzo alto compreso il rischio di vedersi sparato. Il pentito Renato Pugliese racconta così il potere criminale di Giuseppe Di Silvio detto Romolo testimoniando nel processo per alcuni degli imputati dell'operazione Scarface, quelli che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario: Ferdinando Di Silvio, Casemiro Cioppi, Daniel De Ninno, Giulia De Rosa, Domenico Renzi e Marco Maddaloni. Davanti al Tribunale di Latina presieduto da Francesca Coculo, interrogato dal pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia Luigia Spinelli, in video collegamento il collaboratore di giustizia per quasi tre ore ricostruisce nei dettagli il suo rapporto con il leader della famiglia del Gionchetto soprattutto da quando, uscito dal carcere, ha voluto dare una svolta ai suoi affari in particolare lo spaccio di droga visto che durante la detenzione non se la passava bene.

«Ho aiutato la sua famiglia dopo il 2013 quando lui era detenuto ha spiegato e nessuno voleva avere a che fare con lui soprattutto dopo gli omicidi della guerra criminale. Quando è finito ai domiciliari mi chiese di cedergli Michele Petillo, che allora lavorava con me: era il migliore spacciatore nella zona pub e nonostante avesse una percentuale molto più bassa di incassi con Romolo ha dovuto accettare. Di fronte a un rifiuto non la passavi liscia, poteva essere sparato o andarsene via da Latina e anche io avrei passato brutti momenti se avessi detto di no. Gli portava dai 20 ai 40mila euro al mese con la vendita di droga. Lui voleva far emergere i suoi figli nel contesto criminale».

Pugliese ha anche illustrato come si svolgevano gli incontri a casa di Di Silvio: i cellulari lasciati all'ingresso durante le riunioni e lui seduto su una sedia tipo Scarface che serviva anche a mostrare che «ormai aveva fatto i soldi e se la passava bene».

E poi la disponibilità di armi, molte delle quali nascoste nella buca fatta in un terreno dietro la sua casa e lui che spesso aveva addosso una pistola. E nonostante ciò voleva altre pistole, «voleva essere armato fino ai denti per avere la possibilità di difendersi».

«Ho anche dovuto vendergli la droga a un prezzo stracciato - ha continuato - mi ha pagato poco più di 3mila euro per 150 grammi di cocaina purissima che in realtà valeva almeno 7mila euro: da un altro non avrei mai accettato questa proposta ma non ho potuto fare diversamente, non me lo volevo fare nemico».

Giuseppe Romolo Di Silvio insomma non era una persona alla quale si poteva dire di no. L'audizione di Pugliese è stata aggiornata al 3 marzo prossimo quando il pm concluderà la sua audizione. Per quanto riguarda gli altri imputati di Scarface, quelli che hanno scelto il rito abbreviato, oggi è prevista la sentenza del gup del Tribunale di Roma: l'accusa ha chiesto condanne per complessivi 178 anni di carcere per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi, tutti aggravati dal metodo mafioso e da finalità di agevolazione mafiosa.
Elena Ganelli
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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