Belmondo e Moore, opposti allo specchio

Belmondo e Moore, opposti allo specchio
di Malcom Pagani
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Giovedì 1 Giugno 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:41
Sua madre lo pregava di comportarsi bene: «Per favore, Jean-Paul, smettila di fare il cretino» e il giovane Belmondo, con un talento «naturale per la felicità» ad accontentarla proprio non riusciva: «Sono sempre stato un buffone». Un ragazzino che detestava studiare «mi schierai rapidamente dalla parte degli asini», non disegnava di far notte abbracciato al Pernod e diceva sempre ciò che pensava. La prima volta che incontrò Godard ne diffidò perché «non si rade, non si pettina, fuma un numero inverosimile di orrende Bayard gialle» e perché Jean-Luc portava sempre spessi occhiali che celavano lo sguardo: «E io delle persone di cui non posso vedere gli occhi tendo a non fidarmi». 

CLOWN
Era un giovane clown, il Belmondo non ancora atterrato in copertina. Un acrobata che si lanciava nel vuoto appeso alla fragilità di una fune. Un trapezista della vita che all’attitudine circense era votato per indole. Ogni tanto cadeva, il più delle volte se la cavava e oggi, guardandosi indietro, a 83 anni, scopre di essersela goduta che poi, per gente come lui, è quel che più conta. Cocteau sosteneva che gli italiani «sono francesi che sorridono» e Belmondo, antenati nati ben al di sotto della latitudine di Ventimiglia, sembrava il manifesto ideale per dimostrare la correttezza dell’assunto. Una bella autobiografia edita da Donzelli ne racconta il mito in profondità e ci svela l’attore con il naso da pugile sempre coinvolto in zuffe fin dall’adolescenza: «Dovevo pagare il mio tributo al dio della guerra, e ho preferito farlo giocando ai pirati» come un “brutto” educato al culto delle forme femminili dal padre scultore, uomo dolce e delicato «a cui l’esperienza della grande guerra aveva provocato solchi interiori profondi come una trincea». Dalle modelle paterne senza vesti, sdraiate come Paolina sui divani di casa, Belmondo aveva imparato a convivere con il desiderio. E a superare il complesso del Calimero che sognava di diventare boxeur. Un giorno uscì improvvisamente dal guscio e dal ring dei dubbi per trasformarsi contro ogni pronostico in principe dei belli. Pierre Dux, professore di Conservatorio, aveva suonato la nota stonata: «Lei non terrà mai tra le braccia una donna in un film o a teatro» e Jean Paul l’aveva smentito abbracciando decine di divinità tranne Brigitte Bardot, sfuggita al potere della seduzione: «Nonostante i torridi provini». Leggere le confessioni di Belmondo trascina per induzione alle memorie di un altro Casanova del Cinema appena scomparso, Roger Moore, agli antipodi di Belmondo per formazione, educazione ed estrazione che ora occupa le librerie inglesi con un volume (“My Word Is My Bond”) che descrive le nudità con spirito simile e diverso al tempo stesso: «Nel 1961 girai in Italia “Il ratto delle Sabine” interpretando Romolo, il fondatore di Roma. Un giorno affrontammo una scena ai piedi di una laguna tra fanciulle che si facevano il bagno. L’aiuto-regista disse: “Adesso giriamo la versione latinoamericana” e tutte le ragazze si spogliarono nude. Per la gioia della troupe, arrivò un’improvvisa ondata di acqua gelata e dovemmo trarle in salvo fuori dall’acqua».

SIMILI, MA DIVERSI 
Sfacciato Belmondo, più aristocatico e incline alla pudicizia Moore. Uno, Jean-Paul, cresciuto in campagna vedendo i piloti americani in picchiata sugli alberi di Rambouillet per poi volare tra un set e l’altro in prima persona, dimèntico di quel giudizio iniziale: «sei negato» che non lo abbattè e non gli tarpò le ali. L’altro, Roger, che espletati i propri obblighi con la divisa, frequentò le scuole londinesi di teatro, si travestì da cavaliere medievale per la tv e poi abbandonò i panni classici per sfrecciare tra un motoscafo e l’altro nei panni di un agente segreto che farà storia. Nei loro libri, nessuno occulta niente. È tutto in vista, tutto sincero, tutto filtrato attraverso la lente dell’età. E nella chiarezza, emergono i caratteri. Belmondo è per indole: «dalla parte dei mascalzoni». Moore che è “sir” di nome e di fatto, i mascalzoni li disprezza combattendoli non soltanto sullo schermo. Belmondo devia volontariamente dal sentiero della probità, sia che pedalando in bicicletta venga colto dalla fame e mangi la cassetta delle pesche che la madre gli ha intimato di riportare integra a casa, sia sul luogo di lavoro. Moore non deflette invece dal rigore e quando pecca, lo fa per sbaglio: «Il 5 marzo 1973 presentavo la cerimonia degli Oscar e, aperta la busta, lessi che il premio come migliore attore era andato a Marlon Brando per “Il Padrino”».

L’OSCAR DELLE POLEMICHE
Brando non c’era e in un clima di grande imbarazzo, Moore e Liv Ullman ascoltarono Sacheen Littlefeather, piccola piuma, attrice-squaw inviata da Brando in sua vece, leggere tra fischi e applausi un comunicato di diniego della statuetta di fronte a quasi 90 milioni di spettatori: «Rappresento Marlon Brando che mi ha incaricato di dirvi che non può accettare questo generoso premio a causa del trattamento oggi riservato agli indiani d’America nell’industria del cinema». L’intervento venne tagliato, Sacheen venne allontanata dal palco in tutta fretta e nella confusione, l’Oscar restò nelle mani di Moore. «Lo misi sul tavolo di casa e la mattina dopo mia figlia mi svegliò urlando: «Papà, hai vinto l’Oscar?». Belmondo con ogni probabilità l’avrebbe rivenduto in cambio di denaro come fece con le posate ottenute con il suo primo premio da ragazzo, Moore se lo sarebbe tenuto volentieri, ma lo restituì. A malincuore, perché a ciò che si è sempre stati e non a ciò che si vorrebbe essere davvero, inevitabilmente si ritorna. 
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