Intervista a Bernabè: «A Roma il meglio c’è ma lo Stato torni forte, ora serve una visione»

Franco Bernabè (ansa)
di Mario Ajello
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Giovedì 30 Novembre 2017, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre, 12:27
Matilde Serao, nel romanzo «La conquista di Roma» (1885), fa dire a uno dei suoi personaggi, il deputato Giustini: «Roma è fatta d’indifferenza. E siccome è una città esorbitante, i romani si sfogano parlando male di chi la governa». 

Franco Bernabè, lei da presidente di Unesco Italia e della Quadriennale non crede che sia ora di smetterla con l’indifferenza e con la lagna?
«Sì, bisogna abbandonare questo tipo di atteggiamenti e occorre invece rimboccarsi le maniche. Perché a Roma non c’è soltanto la classe politica, ma anche una società civile molto ricca di personalità e di eccellenze, che si possono mobilitare, così come avviene in altre città». 

Perché a Roma manca questo spirito di azione collettiva?
«Perché forse c’è del cinismo. Ma manca soprattutto - e questa è la vera responsabilità della classe politica - la capacità di comunicare una visione per Roma e un progetto per Roma. Intorno al quale raccogliere e stimolare le energie di tutti. Giustamente ci lamentiamo delle buche stradali, ma non ci sono solo quelle. Esistono in questa metropoli decine di università, centinaia di istituzioni culturali, un’infinità di centri di eccellenza in tutti i campi, sia umanistici sia scientifici, e di luoghi di innovazione. Ma non c’è un sistema».

Lei come spiega questa carenza? 
«La colpa non è solo della politica. Anche se spesso la politica riesce a selezionare il peggio che la città offre. Ho conosciuto nelle mie diverse responsabilità - non solo come presidente di Telecom e come amministratore delegato di Eni - tantissimi romani con posizione di grande rilievo e molto considerati a livello mondiale. Uno si chiede perché questa città non è capace di utilizzare questi talenti». 

Per riattivare un sistema ci vuole una grande visione di Roma, che è proprio quella che manca? 
«C’è anzitutto una questione di fondo. Quella del grande mutamento di ruolo che Roma ha avuto negli ultimi vent’anni. La riforma del Titolo V della Costituzione ha ridotto le funzioni dello Stato centrale. E ha sacrificato una burocrazia ministeriale che, pur con molti difetti, aveva notevoli competenze e professionalità. L’apparato dello Stato s’è impoverito drammaticamente. Sono vent’anni che nella pubblica amministrazione non si assume. Per una città in cui l’apparato statale ha avuto una funzione così cruciale, questo ha rappresentato una forte regressione. Con un impoverimento anche economico del ceto impiegatizio, che costituiva l’ossatura sociale di Roma. E questo impoverimento sta producendo una sfiducia profonda nella politica tradizionale».

La sburocratizzazione non può essere un fatto anche positivo?
«Il fatto, molto negativo, è che abbiamo assistito allo smantellamento delle partecipazioni statali. Avevano dei difetti. Ma forse non tanti di più rispetto alle imprese private. Le partecipazioni statali potevano contare su un personale tecnico di altissimo livello». 

Ma allora bisognerebbe tornare indietro? 
«Non dico questo. Perché nel frattempo le cose si sono evolute, e Roma ha cambiato pelle. Ricordiamoci, solo per citare alcuni esempi, che a Roma ha sede l’Enel, che è l’utility dell’energia di maggior successo in Europa. Lo stesso discorso vale per le Ferrovie dello Stato. E a Roma ha sede la Telecom, che comunque occupa in questa città decine di migliaia di tecnici, direttamente e indirettamente. E potrei continuare a lungo nell’elenco». 

Ma il sistema non funziona per colpa di questa e delle precedenti amministrazioni capitoline? 
«Il problema è che la politica deve fare coprire le buche e fare raccogliere la spazzatura. Ma deve soprattutto dare una visione del futuro della città».

Lei non è un politico, ma che tipo di visione immagina per questa città? 
«L’unica visione che non concepisco è quella della trasformazione di Roma in un parco a tema, storico-archeologico, per turismo di bassa qualità. Parlo della diffusione selvaggia di bed and breakfast; dell’invasione dei pullman turistici; dei monumenti e dei luoghi di pregio inaccessibili per eccesso di folla vociante, maleducata, che sporca e che comporta costi e non porta ricchezza».

Lei metterebbe un ticket d’ingresso alla Fontana di Trevi o a piazza del Pantheon? 
«Il problema non è far pagare un biglietto. Ma è riqualificare il tessuto urbano. Sennò, Roma diventa tutta una pizzeria al taglio. Occorre ripensare l’organizzazione generale della città».

Il tavolo del ministro Calenda va in questa direzione? 
«Assolutamente sì ed è meritorio che sia stato attivato».

C’è qualcosa di buono che il Campidoglio sta facendo? 
«Trovo che ci sia qualche segno di miglioramento, pur nella lentezza con cui si muove l’amministrazione. Per esempio sulla pubblicità esterna, sulla cartellonistica, che aveva devastato Roma, si è dato un freno all’abusivismo, del quale questa città aveva il primato europeo».

Questo per dire che non dobbiamo crogiolarci nel pessimismo?
«Roma è una città complessa. Per affrontare i suoi problemi servono competenze sofisticate. Perciò, come dicevo, è necessario che la politica chiami a raccolta le energie migliori e quella sana borghesia imprenditoriale, professionale, intellettuale che esiste e tutti vanno mobilitati su un progetto condiviso. Vanno valorizzate le imprese d’eccellenza e vanno create le condizioni perché ne nascano di nuove. Lo stesso discorso vale per le università e per le tante istituzioni culturali di immenso valore. Roma appare un deserto, ma non lo è affatto». 

Un deserto nel quale non ci si può muovere? 
«Anche la mobilità fisica in questa città è un problema. A Roma va fatta rispettare la legge. È uno degli unici posti al mondo che ha un enorme parcheggio centrale, sotto Villa Borghese, che è semi-vuoto, mentre le auto stazionano abusivamente nelle rampe d’ingresso e lungo le corsie preferenziali dei bus. Questo il Comune deve fare e non fa: obbligare tutti al rispetto della legge».

Benedetto Croce diceva in generale che «la moralità in politica coincide con la capacità politica». Questo vale anche per Roma?
«Sono due condizioni indispensabilmente associate. Non può esserci l’una senza l’altra. A Roma, a volte, non c’è stata né la morale né la politica».
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